Come prevedibile, ChatGPT è entrata come un fulmine nella quotidianità di questo mondo ormai interamente globalizzato, uscendo dai salotti – e dai laboratori – e divenendo tema da bar. E poiché è sulla bocca di tutti, è inevitabile che tutti ne parlino, ognuno a proprio modo.

ChatGPT sta quindi suscitando sorpresa nella società, per l’incredibile capacità di emulare conversazioni in linguaggio naturale, adattando il lessico al contesto, con grande pertinenza dei risultati, seppur con alcuni strafalcioni, perché non comprende il significato di ciò che dice se non come distribuzione di probabilità delle parole. E poiché è addestrata sullo scibile digitale umano, la probabilità che la parola successiva sia corretta è inevitabilmente alta. Da qui la straordinaria efficacia nelle conversazioni e le clamorose cadute su ragionamenti ovvi, ma poco probabili.



Sta suscitando sgomento nel mondo del business, perché disintermedia la ricerca di contenuti, visto che è ChatGPT a generare la risposta, evitando all’utente di valutare le “pagine” o le risposte di un qualsiasi motore di ricerca, e rendendo l’accesso ai servizi che tutti conosciamo pressoché inutili, minando il business di Internet che – ricordiamolo – si basa ancora sulla pubblicità.



Sta suscitando timore nei filantropi e grandi investitori sul tema AI, che preannunciano catastrofici scenari, sebbene gli stessi siano detentori di algoritmi – basati su AI – che permeano le vite di miliardi di utenti lato social, per certi versi più impattanti la cultura, il costume e l’educazione di quanto un ChatGPT potrà fare nel breve tempo.

Sta suscitando scetticismo, perché la tentazione di derubricarla ad una bolla che prima o poi scoppierà è sempre un allettante anestetico (ma anche che pensa questo si sta convincendo che l’AI è qui per restare).

Sta suscitando resilienza in coloro che si apprestano a trovare fallacie nel ragionamento per confutare che la “Intelligenza” sia opportunamente attribuita ad un software, così da etichettarla come l’ennesimo tentativo informatico di replicare l’intelligenza umana (diversa dal ragionamento umano, parzialmente già replicato).



Sta suscitando entusiasmo in coloro che vedono ogni progresso tecnologico come un altro piccolo passo dell’umanità verso un futuro migliore, più green, più fair.

Ma soprattutto, sta suscitando distrazione, ed è su questo che vorrei soffermarmi.

Non ci vedo complottismo, ma ingenuità. La distrazione da ciò che – davvero – impatta maggiormente la vita, l’educazione, la società: l’uso smisurato, crescente, silente ed incosciente che tutti facciamo dei servizi digitali, senza che si abbia la minima consapevolezza di come l’uso diseducativo stia trasformando il nostro modo di stare di fronte alle piccole cose della vita: perché non essendoci un giudizio manca necessariamente un criterio educativo.

Io, personalmente come ricercatore in università nell’ambito AI e come individuo, non temo ChatGPT, non temo che rubi posti di lavoro, non temo che gli studenti la usino per svolgere compiti, e non temo che i nostri dati personali siano a rischio (buongiorno…!).

Temo, piuttosto, che come individui noi perdiamo la capacità di giudicare quel che facciamo, perché deleghiamo sempre più parti della nostra vita a servizi mediati dall’AI: la noia, che prima generava iniziativa nel soggetto, ora viene “colmata” dal genio della lampada che può darci ciò che vogliamo, ma non ciò che ancora non sappiamo di volere, perché non può scoprirlo per noi: “non so che musica ascoltare, non so quale film guardare, non so quale articolo leggere: profilami, oh grande AI, e suggeriscimi tu cosa leggere, cosa guardare, cosa ascoltare, quale amico chiamare, dove andare in vacanza, come investire. Giudica tu per me perché sei più bravo, perché tu algoritmo hai i dati e sei più efficace, tu puoi farmi riuscire togliendomi il rischio del fallimento” e potremmo continuare.

E così, la pazienza – necessaria nei rapporti umani – diventa pretesa del “tutto-subito”; la noia si trasforma in tempo perso, invece che tempo di iniziativa personale; la “scoperta” perde il fattore del rischio, divenendo efficace, perché andando sul sicuro con l’algoritmo è difficile cadere troppo lontano da ciò che – alla fine – è probabile che ci piacerà comunque. La “frustrazione”, condizione necessaria per qualsiasi crescita umana e professionale, diventa obiezione, un mostro perditempo da evitare come la peste.

Ma soprattutto, l’“imprevisto” – che da sempre ci strappa dalla nostra immagine delle cose per rimetterci al mondo, nel mondo, diviene “non contemplato”. L’imprevisto… sparisce! L’imprevisto non è gestibile, l’imprevisto non è profilabile, non è catalogabile: l’imprevisto deve morire!

Il rischio – vero, concreto, e già presente – è di smarrirci dimenticando che siamo dotati di intelletto umano (intus legere, cioè capacità di leggere dentro le cose, dentro la realtà).

E quindi la distrazione, inevitabile quando si parla troppo e si osserva poco, quando diciamo qualcosa – per poi passare domani ad altro – diventa inevitabile. Potremmo chiederci: questa cosa la dico perché la penso, o la dico perché la so?

Rispondendo sinceramente, potremmo quindi cogliere al volo l’occasione per parlare di più di ciò che sappiamo, che conosciamo, davvero, profondamente: noi. Potremmo guardarci di più all’opera durante le nostre giornate, riflettere su come usiamo il tempo, i rapporti, il denaro, sull’idea che abbiamo di successo, di educazione, di fedeltà, di amicizia, etc. Potremmo fare una bella AI in casa: potremmo chiamarla ChatGPZitti.

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