Normalmente se si mettono in fila più indizi emerge una prova. E il primo indizio riguarda la vicenda che ha interessato il rapporto particolare tra la preside del Montale di Roma e uno studente maggiorenne. L’ufficio scolastico regionale ieri ha terminato la sua opera ispettiva e ha concluso che non vi è niente da sanzionare, solo da stigmatizzare una certa comunicazione inadeguata al profilo istituzionale della dirigente. 



Eppure, e questo è il secondo indizio, è bastato che lo studente lasciasse intendere di essere prigioniero di una relazione tossica con l’adulto educatore per far scattare tutti i sistemi d’allarme dell’universo scolastico, quasi ad ammettere che in fondo chiunque, dicendo quello che vuole, può profittare del clima intercorso con la stagione degli abusi sessuali per rovinare chicchessia, senza che il sistema batta un ciglio in chiave garantista, ma sempre e solo cercando ciò che possa corroborare un giudizio già scritto. 



Infine la clamorosa affermazione del presidente dei presidi del Lazio che, scoprendo l’acqua calda, annuncia che le chat di classe vanno regolamentate, che non è possibile che chiunque possa intervenire a dire quello che vuole in un luogo informale e assolutamente non indicato al dialogo scuola-famiglia. 

I tre indizi portano dunque alla prova: nella scuola c’è un problema di comunicazione. Un problema che nasce dal venir meno della consapevolezza dei confini che le relazioni necessitano per funzionare: il confine dei dirigenti, quello dei docenti, il confine dei genitori e quello degli studenti. I confini ci proteggono, ci custodiscono, permettono a ciascuno di abitare uno spazio in cui sviluppare le proprie prerogative. Per secoli gli uomini si incontravano al confine e lì scambiavano fra loro i beni più preziosi, le cose essenziali. Il senso del confine nasce sempre dalla percezione dell’altro, del suo valore, della sua dignità, di quanto il suo comportamento e la sua opera possano essere un’opportunità per me e per la mia vita. Scomparsa l’ipotesi che l’altro sia per me una speranza, resta solo il sospetto, la paura, il presentimento che da un momento all’altro possa compiere nei miei confronti qualcosa di male.



Il nostro tempo è un tempo, anche nella Chiesa, in cui si pensa che si possa sostituire il paziente e necessario lavoro di ricostruzione dei confini – e quindi della fiducia nei confronti dell’altro – con regole più severe, con irreggimentazioni dove la protocollizzazione di ogni comportamento trasmetta a tutti più sicurezza e trasparenza. Senza pensare, tuttavia, all’aridità che rimane sul fondo, alla distanza che si crea sempre più tra l’impeto della natura umana, il suo desiderio buono di vicinanza e accompagnamento dei più giovani, e la cultura del tempo, che condanna tutte le forme di relazione non sapendo più indicare a nessuno la strada per costruirne una sana. 

Sogno un mondo pieno di chat. Ma dove queste chat rimangono vuote. Perché nessuno ne ha più bisogno, avendo trovato un tempo e uno spazio dove imparare a parlare.

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