I finanziamenti ad Hamas? Imponenti. Ma non solo dal Qatar, come è noto. Anche dall’Arabia Saudita. È il lato oscuro, criminale e imbarazzante del cosiddetto “Rinascimento Saudita” che sta incantando tanti politici e governi.
“Il primo errore ingenuo da non commettere” ci spiega Rony Hamaui, docente di scienze bancarie all’Università Cattolica di Milano ed esperto di economia e finanza islamica “è quello di ritenere che Riyad, avendo avviato una politica di appeasement con Israele, abbia interrotto i vecchi finanziamenti ad Hamas”.
Stiamo parlando della casa reale saudita? O di altri enti?
L’Arabia è uno Stato autocratico, dove è molto difficile distinguere ciò che è dello Stato, del sultano, dell’emiro o delle rispettive cerchie. Tutti i ruoli si confondono, si intrecciano. Da sempre l’Arabia ha finanziato strutture che formalmente aprivano moschee, gestivano scuole, ospedali, enti caritatevoli in tutto il mondo ovunque ci fossero musulmani.
Le ha chiamate “strutture”. Di che cosa si tratta più precisamente?
Si tratta di fondazioni, che nel mondo arabo sono diffusissime. Attenzione: niente a che vedere con le nostre fondazioni. Nel mondo arabo sono enti di due tipi. Un primo tipo di fondazione ha lo scopo di trasmettere l’eredità senza disperderla, l’altro tipo di fondazione ha scopi sociali. Le due istituzioni a volte si sovrappongono, a volte restano distinte.
Come si spiega la loro importanza?
Nel mondo islamico l’unico modo per trasmettere il patrimonio ad un figlio conservandone l’integrità, cioè evitando che esso venga frammentato tra decine di possibili eredi, è quello di ricorrere a queste fondazioni caritatevoli. Esse pertanto rappresentano una possibilità, anch’essa legale nel diritto islamico, di bypassare la legge islamica sull’eredità. Qui si può fare un’osservazione: se le norme sull’eredità non venissero aggirate, non avremmo le concentrazioni mostruose di ricchezza che contraddistinguono il mondo islamico.
Come funzionano? A chi vanno i soldi e chi decide come vengono destinati?
Vanno ad una fondazione che al suo interno comprende una moschea, una scuola islamica, altri enti finalizzati agli aiuti caritatevoli fino ad arrivare, nelle propaggini più oscure, al finanziamento dei gruppi terroristici. Questo, almeno, è lo schema più diffuso. Che lei destini la sua donazione alla moschea di Milano, di Londra o di Gaza, è l’imam che pensa a come allocare i soldi. La sua discrezionalità è amplissima.
Si tratta sempre di eredità o donazioni una tantum?
Assolutamente no. Può trattarsi benissimo della zakat, ossia la “decima” rituale.
Torniamo all’Arabia Saudita.
Ha costruito moschee e madrasse (scuole coraniche, nda) in tutto il mondo, ovviamente a condizione che seguissero l’ispirazione religiosa dei finanziatori. Le fondazioni sono state il tramite con il quale i sauditi hanno imposto la loro volontà e la loro egemonia politica nel mondo arabo.
I canali con i quali l’Arabia finanzia il terrorismo sono noti ai governi?
Gli Stati Uniti li conoscono benissimo. Ma anche le nostre forze dell’ordine conoscono perfettamente i meccanismi delle fondazioni.
Perché questa commistione di politica e Corano?
Proprio perché nell’islam non esiste una chiara divisione tra religione, politica, organizzazioni terroristiche. Tutti si incrocia. Ed è un problema enorme. Prenda tutti i soldi che l’Unione Europea ha stanziato a favore dei palestinesi: non sapremo mai dove sono andati a finire, realmente, tutti questi fondi. Ma sicuramente possiamo immaginarlo, senza timore di sbagliare.
Dunque è una certezza?
Sì. In un modo o nell’altro, presto o tardi, occorre transitare attraverso il sociale locale. Le Nazioni Unite hanno il loro canale per mandare i finanziamenti a destinazione, la Croce Rossa pure, ma tantissime altre organizzazioni no profit che aiutano il mondo islamico devono alla fine passare dalle strutture locali. Ed è a quel punto che si perdono molte tracce dei finanziamenti. Non sto negando che con i finanziamenti europei si siano costruite scuole: Si sono certamente costruite scuole, ma si è finanziato “anche” altro. Il donatore formalmente finanzia sempre attività benefiche, ma non tutto quello che dona va ad attività benefiche. Cioè detto, il problema è anche nostro.
In che senso?
Nel senso che facciamo le anime belle. In strutture così poco trasparenti dove c’è una connivenza fortissima tra religione, politica, socialità e terrorismo, tutto si mischia. Se non dappertutto, a Gaza sì. Se non ci mettiamo questi “occhiali”, non riusciamo a capire. Certo, ci sono Paesi che dichiaratamente finanziano Hamas, come il Qatar, ma tutti gli altri lo finanziano ugualmente attraverso questi mille rivoli così ambigui.
Se invece inforchiamo gli occhiali giusti?
Allora non possiamo più stupirci che dall’Arabia continuino ad affluire nelle casse di Hamas imponenti flussi di denaro mentre bin Salman negozia con Israele.
Adesso però c’è la guerra. Anche l’Arabia dovrà scegliere.
Un tempo l’Arabia Saudita era uno Stato teocratico. Adesso sta diventando uno Stato autocratico. La differenza è sottile, ma reale. Significa che il nazionalismo sta soppiantando la religione. In una situazione di passaggio come questa, nella quale teocrazia e autocrazia fanno parte dello stesso limbo, i governanti devono in qualunque modo assecondare il consenso politico.
Quindi?
I sauditi non potranno abbandonare i palestinesi.
E gli accordi di Abramo?
Non gliene importa nulla. Sanno che avremo ancora bisogno del loro greggio.
A Riyad potrebbero trovarsi davanti a un dilemma. Prima opzione: il conflitto è vantaggioso perché, palestinesi a parte, aumenta il prezzo del petrolio. Seconda opzione: il conflitto è rischioso perché può far saltare mega-progetti miliardari come “Saudi Vision 2030”. Come si risolve?
Esattamente come ha fatto e sta facendo Erdogan: tenendo i piedi in due scarpe. In alcuni momenti è pro-Europa, in altri è pro-Putin. Le autarchie possono essere molto ciniche, non hanno affatto bisogno della coerenza.
(Federico Ferraù)
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