Irrompe nel pomeriggio di Canale 5 una strana intervista. È quella che il programma di Myrta Merlino, da due anni al timone della storica trasmissione del daytime della rete ammiraglia del gruppo Mediaset al posto di Barbara d’Urso, ha fatto in esclusiva al vescovo di Parma, Enrico Solmi. Il prelato è chiamato ad intervenire sulla terribile storia che ha coinvolto un paese della diocesi emiliana, Traversetolo, e che ha visto una giovane donna – Chiara – partorire e uccidere entrambi i suoi due figli, seppellendoli nel proprio giardino. La vicenda ha destato sconcerto e orrore, ponendo più di una domanda sulla ragazza e sulle reali intenzioni che hanno mosso tutta la trama infanticida.
A sorpresa, Solmi pronuncia parole diverse, descrivendo i due bambini come creature nelle braccia di Dio che adesso giocano con la Madonna e fanno il tifo per la loro madre non solo perché prenda piena consapevolezza del gesto che ha compiuto, ma anche perché sappia raccogliere ciò che resta della propria vita per metterla al servizio del bene, per realizzarsi, per tornare ancora ad essere mamma.
Merlino non regge il pensiero del presule e non stenta a definirlo urticante. Ci sono, però, alcune cose che la conduttrice fatica a mettere a fuoco e che impediscono di cogliere la grande profondità delle affermazioni fatte dal vescovo.
Nel mondo occidentale le relazioni dipendono dalle azioni: ciò che siamo è definito da ciò che facciamo. Chiara, avendo ucciso i propri figli, non può più essere madre per l’opinione pubblica plagiata dal puritanesimo imperante. Invece, per il cattolicesimo, le relazioni sono per sempre. Ciò che siamo, ciò che amiamo, ciò che caratterizza il nostro rapporto con gli altri, non può essere interrotto da nessun nostro errore, da nessun nostro peccato, da nessun nostro orrore. Ciò che siamo non è qualcosa da conquistare con la buona condotta, ma un fatto da riconoscere e a cui continuamente tornare. I figli uccisi da una madre sono, certamente in modo spiazzante, sempre figli di quella madre. È questo il mistero dell’Essere, che nulla spezza e tutto tiene, che nulla tradisce e tutto ama.
Ma c’è di più. La vita di una persona che compie cose mostruose non coincide con la vita di un mostro. Ciò che facciamo segna, come una ferita, quello che siamo, ma non elimina la possibilità che la ferita diventi cicatrice, solco in viso, segno di un passato che ha attraversato il nostro cuore e la nostra libertà cambiandoci, ma non annullandoci, non uccidendoci, non condannandoci. Per una roba del genere ci vuole il perdono delle viscere di Dio, ci vuole misericordia, ma ci vuole soprattutto un incontro che riveli all’uomo la propria dignità, la propria irriducibilità ad ogni male, ad ogni mancato atto di umanità. Chiara sarà colpevole e un tribunale la giudicherà tale. Ma Chiara resterà Chiara e quella vita non è finita. Il suo peccato è solo il primo tempo di una partita più ampia in cui il vescovo diventa tifoso e amico.
Myrta Merlino non capisce che indignarsi di fronte al male equivale a indignarsi di fronte all’umano. Non è un modo furbo per abolire la responsabilità verso il male fatto, ma la strada che porta chiunque a rinascere e a ricominciare. Pensare che quei due bambini possano, in modo misterioso, voler bene alla propria mamma fino al punto di fare il tifo per lei, non significa essere stupidi come un vescovo, non significa provocare irritazione come una conduttrice televisiva, ma significa riaffermare speranza e pace in un mondo in cui gli uomini si uccidono e si illudono di non cambiare. Chiara ormai è cambiata per sempre. E la sua vita è pronta ad un cammino nuovo. Di cui nessuno, tranne forse i suoi figli, può permettersi di sospettare l’esito e la fioritura. Perché è vero che siamo esseri mostruosi – diceva Antigone –, ma è anche vero che, inaspettatamente, sappiamo diventare creature straordinarie.
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