Chico Forti continua a professarsi innocente, e molti gli credono. Non è così per la giustizia americana, che lo ha condannato all’ergastolo senza possibilità di condizionale per l’omicidio del giovane Dale Pike a Miami. L’ex produttore televisivo italiano ha trascorso 24 anni di detenzione oltreoceano prima di ottenere il rientro in Italia nel 2024, trasferito nel carcere di Verona dopo essere stato accolto dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni all’aeroporto (circostanza costellata di polemiche a sottolineare un “rendez-vous” inoppportuno e senza precedenti).



Tra le persone che ritengono Forti estraneo al delitto che lo ha portato in cella in Florida per decenni, c’è la criminologa Roberta Bruzzone. Intervistata sul caso dal quotidiano Il Tempo, ha ribadito le sue perplessità sulla ricostruzione fatta dagli inquirenti statunitensi a carico del nostro connazionale e ha parlato di una serie di elementi che la spingono a ritenere insussistente il quadro accusatorio.



“Prove labili a partire dall’arma del delitto”

L’omicidio di Dale Pike risale al 1998 e secondo i giudici americani l’assassino è Chico Forti. Appena tornato in Italia, lui ha ribadito la sua innocenza sottolineando, nelle sue prime dichiarazioni pubbliche attraverso il Tg1, di essersi dichiarato colpevole soltanto per ottenere la possibilità di rientrare in patria. L’unico motivo che lo avrebbe spinto ad assumersi la responsabilità del delitto, a suo dire, sarebbe stato quindi l’orizzonte dell’estradizione.

Per la prima volta in 24 anni non ho le manette, non ho più un numero e indosso abiti normali, italiani. Per me cambia tutto“, ha aggiunto ai microfoni del telegiornale. Dello stesso avviso Roberta Bruzzone, che ha ricalcato le differenze tra l’essere un detenuto qui e stare rinchiuso in una cella negli Stati Uniti:Non è più un numero o una matricola, ma è un uomo”. La criminologa si occupò di produrre una consulenza tecnica nella quale venivano evidenziati i presunti errori nella ricostruzione ufficiale del caso Pike. A suo parere, le prove che lo avrebbero inchiodato “sono alquanto labili” a partire dall’arma del delitto, mai ritrovata, una pistola calibro 22: “Sulla carta appartiene a Chico – ha detto Bruzzone –. In realtà è sempre stata nella disponibilità di Thomas Knott, un truffatore tedesco sotto le mentite spoglie di un maestro di tennis, che viveva nel palazzo di Forti. Knott aveva scelto la pistola in un negozio e, non avendo con sé il denaro, aveva chiesto a lui di pagarla“. Secondo l’esperta, l’accusa non aveva in mano “niente di niente” per dichiarare oltre ogni ragionevole dubbio che Chico Forti fosse l’omicida: “Nessun testimone, zero impronte, test del dna negativo, nessun valido movente“.