In una informativa fascista dei primi anni Trenta è sintetizzato, con lo stile degli informatori, il ruolo e la relazione che hanno caratterizzato Armida Barelli (1882-1952) e padre Agostino Gemelli. Due anime inseparabili nella storia del cattolicesimo di mezzo Novecento.

L’Azione cattolica – grande antagonista del fascismo dal 1931, dalla pubblicazione dell’enciclica di Pio XI Non abbiamo bisogno – è tenuta particolarmente d’occhio. D’altra parte essa sottrae le masse giovanili al controllo totale dell’educazione littoria; e che dire delle adunate, del catechismo, della tesserina, che svuotano di significato le parate in camicia nera? Azione Cattolica – scrive il delatore – che “seguendo il fascino di Padre Gemelli” e l’azione organizzativa della “sua più accesa e fedele sostenitrice e collaboratrice”, ovvero Armida Barelli “sbandò verso l’Università Cattolica, di cui fu il primo e principale aiuto”. In particolare la spia segnalava che “le Giovani Cattoliche milanesi, cui ben presto seguirono tutte le giovani cattoliche d’Italia, fecero dell’Università uno scopo della loro esistenza e si incaricarono del suo finanziamento attraverso lo stillicidio delle raccolte periodiche”. Insomma, era la conclusione dell’informativa poliziesca, le donne cattoliche, guidate da questa signorina di buona famiglia che si era consacrata al Sacro Cuore di Gesù e aveva abbracciato il movimento terziario francescano, si erano agganciate “al grande ceppo di attività culturale cattolica che [aveva] dimostrato di saper resistere al tempo e alle difficoltà”.



Il ruolo di Armida Barelli, cui si affianca una spiritualità intensa, è decisamente originale in questo contesto storico che si sviluppa tra la fondazione dell’Università Cattolica nel 1921, attraversa gli anni controversi, soprattutto per l’ateneo di Sant’Ambrogio, del fascismo e approda agli anni della ricostruzione civile e culturale degli italiani. Armida è poco più che trentenne quando entra nella squadra di Gemelli sposandone totalmente la causa di ricostruzione culturale e morale di un’Italia dilaniata dalla guerra e dalle prime avvisaglie di una modernità pericolosa. E per oltre quarant’anni resterà l’anima femminile dell’Università, il trait-d’union tra questa e le grandi masse delle donne cattoliche.



Quella che per tutti è “la cassiera” dell’Università, ha una chiara visione del mondo da costruire che non si esaurisce in una pur nobile impresa amministrativa. Come il suo mentore, alla Barelli sta a cuore la formazione, cristiana e culturalmente solida, di una classe dirigente in cui la donna possa avere un ruolo deciso e peculiare. Il contesto: “Purtroppo viviamo in un’atmosfera pagana, liberale, socialista, mentre per pensare cristianamente è indispensabile vivere un’atmosfera cattolica” – scrive nei primo anni Venti. Gli echi sono certamente gemelliani, di quel “medievalismo” che costituisce l’orizzonte, se non il metodo, della riconquista.



Ed è proprio alle donne, fulcro di una società cristiana, e tanto temute da ogni forma di regime perché portatrici di una coscienza assai difficile da scalfire, che la Barelli si rivolge in quest’opera di redenzione della società: “La salvezza è nel Cristianesimo. Per molti anni ci siamo illusi che potesse venire da un’altra via, una via tutta umana, ed abbiamo avuto fede nella patria per se stessa, nelle sue forme interne, nel suo genio, nel suo destino”.

Vi è un genio nel cristianesimo, ma vi è anche un genio femminile, cui è doveroso dedicare la vita. Così, nella Milano dinamica e intelligente, sotto la guida del cardinal Ferrari, la Barelli dà vita proprio ad un’associazione cattolica femminile, “laica e presieduta da laici, con responsabilità proprie, ma alla piena dipendenza dell’Autorità Ecclesiastica”.

Il cuore dell’esperienza è tutto nella preghiera, antidoto ad ogni “isterismo”, ad un inutile e inconcludente “discutere”. Nascono per questo le Oasi, i ritiri, i corsi di cultura religiosa. Pregare, e pregare insieme.

Se l’obiettivo è “ridare Cristo alle masse”, alle donne spetta una dignità speciale: “Essere spose, e non serve”: entrare da protagoniste nel mondo della cultura, dell’educazione, riprendersi insomma, a piene mani, quel compito di formazione delle coscienze, coscienze maschili soprattutto, che la natura e il Padre Eterno, ha per esse stabilito.

Vi è nella Barelli, come scrive Giorgio Rumi, un “insopprimibile vocazione alla santità” con il suo inevitabile “distacco dal mondo” e insieme “un’altrettanta volontà di trasformarlo”. A cominciare dalle élites, economiche, sociali e culturali. Fare entrare il “Cristo Re” nei salotti: ecco il proposito tutt’altro che velleitario. Il compito dell’Università, che la Barelli vuole sia opera collettiva del cattolicesimo italiano e per questo si batterà anche contro influenti e potenti antagonisti, è proprio quello di stanare le contraddizioni di una cultura laica imperante, con il linguaggio e i metodi propri della modernità.

Sconfitto il fascismo, sopportato in Sant’Ambrogio con una minima dose di tolleranza, secondo il progetto gemelliano, il nuovo mondo si presenta con connotati affatto nuovi, e per certi versi irreversibilmente mutati. Armida Barelli, ormai malata e vicina alla morte, coltiva la corrispondenza, diffonde quell’imperativo di regalità a cui aveva donato la vita. Nel cattolicesimo politico che muove deciso i suoi passi, stigmatizza l’assenza di ogni riferimento alla grande battaglia cattolica. Ma la sua è ormai un’esperienza fuori moda. Esempio chiaro di una santità sociale ereditata dall’Ottocento e trasferita nel secolo breve, con caratteristiche squisitamente ambrosiane, oggi Armida Barelli sale all’onore dell’altare, additata a modello di virtù. C’è da chiedersi, oggi, quanti nella sua università, sappiano chi è.

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