Le dimissioni del cardinale Reinhard Marx dal suo incarico di pastore delle diocesi di Monaco e di Frisinga sono una sveglia potente per tutta la chiesa europea.

Marx si dimette, assumendosi responsabilità che non ha nella grave questione degli abusi sessuali sui minori ad opera del clero, ma si dimette anche e soprattutto per compiere un atto politico che spinga il Papa ad accelerare su alcuni processi che il pontefice ha messo in atto e che – a dire dell’episcopato tedesco – non stanno producendo quelle riforme radicali della Chiesa necessarie a superare “il punto morto” dove la cattolicità occidentale sembra essersi impantanata, in uno scontro sempre più duro tra il conservatorismo dell’episcopato nordamericano e il progressismo di quello mitteleuropeo.



Sul tavolo ci sono questioni accesissime che incrociano punti teologici dirimenti, come quelli prospettati dall’Amoris laetitia, e scelte organizzative profonde come quelle annunciate sull’organizzazione maggiormente sinodale del confronto fra gli episcopati del pianeta e Roma. Sullo sfondo le questioni etiche legate al fine vita, quelle sociali segnate dall’avvento di una strutturata cultura Lgbt+, quelle politiche che intrecciano le patologie del sistema capitalista con l’emergenza sanitaria, ambientale e migratoria.



È evidente che uomini come Marx, lontani da una cultura scismatica, vorrebbero risolvere tutto e in questa generazione, è evidente l’insofferenza verso il tempo, verso gestazioni che si teme non solo che non possano portare nulla, ma che, al contrario, possano far perdere il tempo favorevole e propizio di un pontificato che, almeno anagraficamente, è entrato nella sua stagione autunnale.

Eppure le dimissioni del cardinale raccontano anche altro, qualcosa che pochi uomini di Chiesa avvertono: l’incapacità del cattolicesimo di dialogare e introdursi nell’esperienza della gente, la sua distanza siderale dal sentire dei giovani e l’inefficacia comunicativa. Marx ne parla indirettamente nella sua lunga lettera di dimissioni al Papa: com’è possibile che dopo vent’anni che la Chiesa chiede scusa per gli abusi sui minori, la Chiesa stessa sia ancora così odiata e stigmatizzata per quell’orrendo misfatto? Quand’è che abbiamo smesso di essere capaci di chiedere scusa? Quand’è che le nostre parole, tante e troppe, hanno smesso di essere ascoltate dall’uomo di oggi?



La società occidentale legge la Chiesa come “ricca” di gesti per i più poveri, straripante di consigli circa la vita e la morale, ma povera di espressioni che intercettino il cuore degli uomini e lo facciano ardere. Non si tratta di trovare comunicatori brillanti o strategie vincenti, bensì di recuperare un’esperienza adulta e personale della fede, un rapporto con Cristo che soddisfi la vita. Ad un osservatore esterno la Chiesa e i cristiani oggi appaiono irrequieti, come se non fossero più pienamente soddisfatti e realizzati dall’amore di Dio e nella gratuità dell’amore di Dio. Questo continuo bisogno di dire qualcosa sulla vita degli altri, di lamentarsi del mondo o di rimuginare dotti pensieri per riorganizzare la Chiesa lascia sul terreno una generazione stanca e scontenta, non lieta della propria umanità, ma problematica e moralista.

Nietzsche sintetizzava tutto ciò con un aforisma icastico: “Dicono di essere salvati ma non ne hanno la faccia”. Senza la gioia di vivere, e la speranza certa dentro il soffrire, i nostri costrutti ideologici diventano solo disperati tentativi di mettere a posto la baracca. E Marx, più che il nome di un cardinale generoso nelle sue intenzioni di fede, rischia di essere l’eco del nome di un filosofo ancora molto amato per le utopie ma poco frequentato per chi ha davvero bisogno di vivere la realtà. 

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