L’elezione del Papa è probabilmente una delle più efficaci cartine di tornasole per ripercorrere diritto, storia e attualità nell’esperienza della Chiesa. Lo dimostra, quanto al primo aspetto, come siano ciclicamente cambiate le norme per eleggere un pontefice e come di conseguenza si sia modificata la platea degli elettori. A livello storico, inoltre, soprattutto dopo papati molto lunghi, non solo del periodo classico – basti pensare a Giovanni Paolo II, pontefice per quasi ventisette anni –, verificare i cambiamenti avvenuti nel conclave e nella sua composizione significava e significa cogliere l’evoluzione della Chiesa nel mondo. E anche quella del mondo, rispetto alla sua sensibilità, oppure ostilità, nei confronti della Chiesa medesima. Il fenomeno ha preso una direzione univoca ormai da tempo, almeno da quando si è delineata, come componente dell’elettorato pontificio, una procedura basata sulle preferenze e i voti di un collegio di cardinali. Scorrono profili personali di grandi pastori, vicende politiche dei loro Stati di provenienza, esegesi ma anche aneddotica, che accompagna inevitabilmente i grandi eventi.
Il conclave, le cui norme si sviluppano all’insegna di un grande riserbo interno, pur sempre più facilmente aggredibile, è un evento e ai giorni nostri non lo è comunque soltanto per i fedeli cattolici. È accompagnato e seguito da un fascino, da un’attesa, persino da una serie di auspici (o scetticismi). La partecipazione emotiva e l’interesse laico sono molto più giustificabili della pruderie personalistica o del pregiudizio ideologico. Nel Concistoro ordinario del 7 dicembre scorso, papa Francesco ha creato 21 nuovi cardinali. Tra essi, cinque italiani, tutti provenienti da percorsi personali, nella riflessione pastorale come nello specifico ruolo ecclesiale, assai diversi. Tra essi, ad esempio, il novantanovenne Angelo Acerbi, veterano del servizio diplomatico presso la Santa Sede e più prosaicamente memoria storica del lungo percorso della libertà religiosa dei cristiani (e non solo) nel “Secolo breve”. Si è arrivati a un collegio cardinalizio di 253 componenti, anche se di essi solo 140 hanno allo stato il diritto di voto (in 14, tuttavia, compiranno l’ottantesimo compleanno, requisito anagrafico, nel corso del 2025).
Sono in ogni caso numeri copiosi che, in filigrana, oltre alla disciplina canonica dei porporati dimostrano anche la crescente significatività simbolica della nomina cardinalizia. Si tratta, spesso, di simboli che anzi piacerebbe avessero concretezza diffusa anche rispetto alla crudezza dei poteri statali e all’indifferenza delle opinioni pubbliche. Basti considerare la nomina del vescovo di Teheran, Dominique Joseph Mathieu, o a quella del teologo Timothy Radcliffe, autore di bestseller sulla fede cattolica in Gran Bretagna, penna salace nonostante sporadiche accuse di semplicismo.
Pare perciò che questa singolare risonanza tra sentire collettivo e disciplina canonica, questa inevitabile componente di pari attesa partecipativa, alla vigilia di un anno giubilare possa determinare qualche motivo di riflessione in più: da consegnare, appunto, a un dibattito collettivo che vedrà questa generazione testimone esclusivamente della sua prima fase. Paolo VI aveva fissato in 120 il numero massimo dei cardinali infraottantenni e perciò in grado di eleggere il pontefice. Si trattava di una società anche demograficamente diversa, nondimeno il tema aveva un suo significato. Si voleva un collegio elettivo non troppo ristretto perché la Chiesa entrava nella “globalizzazione” prima di tanti altri attori sociali e non poteva darsi nemmeno lontanamente l’immagine che il suo vertice fosse il numero magico uscito da una piccolissima roulette.
Non siamo tuttavia in presenza di un’assemblea regionale, di consiglieri organizzati per pattuglie di preferenze. Pensare che il collegio cardinalizio dipenda in misura così preponderante dagli innesti del pontefice regnante su un reticolo di porporati che dovrebbe invece costituirsi insieme obbediente e libero da un rapporto solo formalisticamente gerarchico, significa applicare il metodo dello spoils system del diritto amministrativo secolare – talvolta funzionale, talvolta disastroso – a una entità giuridica che non ha affatto quelle caratteristiche. Scegliere i cardinali, in sostanza, di là dalla prudenza di Paolo VI – né troppo, né troppo poco – mano a mano diventava già profilare se non il pontefice successore, quantomeno la linea che più probabilmente avrebbe potuto raggiungere il consenso di maggioranza.
La Chiesa-popolo di Dio deve però provare a pensarsi Chiesa-mondo senza diventare perciò soltanto Chiesa dalla logica mondana, esattamente come la rinuncia pontificia non può ridursi nella percezione comune alla possibilità di avvicendamento in una qualsiasi repubblica, ma deve implicare un giudizio valoriale se non più articolato, nondimeno diverso.
Le Chiese asiatiche si vedono di più, ma la loro organizzazione è più stabile, efficace e matura laddove da più tempo abbiano agito in contesti democratici. Cresce l’influenza degli episcopati latino-americani, ma l’America del Sud è ormai patria di un cristianesimo bifronte, dove c’è spazio per sensibilità anche profondamente contrarie al magistero cattolico. Non ci sono porporati provenienti dalle ex repubbliche sovietiche e si fa fatica a capire se sia questione di una loro irrilevanza, della damnatio memoriae o di equilibri geopolitici.
Chiedersi “quale conclave, quale Chiesa” tuttavia non indica, se non molto relativamente, che la composizione del conclave può orientare il voto e da lì predeterminare una certa tendenza. È piuttosto il modo in cui si intende la funzione del conclave – ruolo elettorale, ministero religioso e servizio di fede – a svelare come si risponde alla domanda su quale immagine dare della Chiesa medesima. Due sfide importanti eppure qualitativamente molto, molto diverse.
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