Caro direttore,
una premessa è scontata, e non solo d’oblige: nessuno – dentro o fuori la Chiesa cattolica, italiana e non – ha mai potuto mettere in dubbio che il cardinale Matteo Zuppi fosse il candidato per la presidenza dell’episcopato nel Paese che ospita la diocesi del Papa. Il curriculum e soprattutto i talenti (dottrinali, pastorali, geo-politici) espressi dall’arcivescovo di Bologna durante tutto il suo cammino di presbitero, presule, animatore di punta della Comunità di Sant’Egidio da tempo parlano da soli. Hanno parlato anche agli oltre trecento elettori che ieri hanno scelto la terna per la successione al cardinale Gualtiero Bassetti al vertice della Cei. Il primo votato al termine del primo scrutinio è stato Zuppi. E Papa Francesco – formalizzandone ad horas l’indicazione – ha rispettato l’impegno preso lunedì pomeriggio davanti all’assemblea dei vescovi italiani.



“Sentitevi liberi” aveva  detto loro dopo due ore di un confronto definito da molte fonti “franco”: ricorrendo più al gergo politico-diplomatico che  a quello ecclesiale. “Franco” – trasparente – era stato certamente il Pontefice quando, un paio di settimane fa, aveva detto fra virgolette al direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, di augurarsi che il nuovo presidente della Cei fosse un cardinale. Nessuno – dentro o attorno la Chiesa italiana – ha minimamente eccepito. Anzitutto perché la “sequela” del Papa è la peculiare declinazione dell’“obbedienza” cattolica. E le sfide per la Cei – anzitutto il contrasto a un crescente “sonno della fede” nella società italiana e alla piaga sommersa della pedofilia nel clero – imponevano certamente a chiunque fosse stato investito della presidenza un’autorevolezza fuori dall’ordinario: cementata anzitutto dalla fiducia piena espressa dal Primate d’Italia, sotto forma di nomina cardinalizia.



Non per questo i vescovi italiani non si sono sentiti liberi di segnalare al Papa i talenti dell’arcivescovo di Modena-Nonantola, Erio Castellucci: secondo più votato dopo Zuppi al primo (decisivo) scrutinio. Castellucci – vicepresidente uscente della Cei per l’Italia Settentrionale – ha immediatamente declinato ogni ipotesi di “ballottaggio” con il cardinale di Bologna. Non diversamente aveva fatto – secondo fonti concordanti – l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio quando il conclave del 2005 gli aveva assegnato una minoranza qualificata (potenzialmente di blocco) nel voto per la successione a Giovanni Paolo II: infine arrisa al cardinale Joseph Ratzinger.



Fra Bologna e Modena corrono meno di 50 chilometri, al margine inferiore del Nord Italia. Nell’assemblea Cei “di transizione” sono emersi per alcuni versi come frontiera, se non proprio come fossato. La terna presentata al papa è stata formalmente composta da tre presuli rappresentanti di altrettante Italie (il cardinale Paolo Lojudice regge l’arcidiocesi di Siena, monsignor Antonino Raspanti la diocesi di Acireale). Anche il “bolognese” Zuppi è tuttavia originario di Roma, dov’è stato vescovo ausiliario (un curriculum-fotocopia presenta Lojudice). Nel 2022 nessun vescovo dell’Italia settentrionale è risultato in lizza per la Cei. Nessuno dei titolari delle tradizionali sedi cardinalizie (Milano, Torino, Genova e Venezia) era del resto in possesso del cappello che il Papa aveva informalmente suggerito come criterio selettivo.

Quanto è accaduto ieri è dunque un giudizio oggettivo preparato dal Papa – con tutta evidenza – in anni di nomine episcopali. Critico verso la Chiesa (italiana) “euro-continentale” e molto più fiducioso verso quella proiettata verso il Mediterraneo e oltre (Zuppi è stato fra l’altro pacificatore della guerra civile in Mozambico).

Da oggi, comunque, il giudizio del Papa diventa certamente una sfida il nuovo presidente della Cei. Un suo grande predecessore – il cardinale Camillo Ruini, tuttora vivente – aveva iniziato a Reggio Emilia il suo cammino di vescovo, che l’aveva infine portato al vicariato di Roma ma soprattutto alla leadership più profilata che la Cei abbia avuto dopo il Concilio Vaticano II. Ora è un “prete romano” che viene incaricato di un nuovo “progetto” per la Chiesa italiana: probabilmente meno “culturale” di quello sviluppato da Ruini, ma più intensamente sociale. Non necessariamente meno politico: anche se forse diversamente politico.

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