Il cammino della sinodalità è “il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”: con quest’affermazione, che esprime l’impegno programmatico proposto da papa Francesco, si apre l’Introduzione al documento La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, elaborato dalla Commissione teologica internazionale e pubblicato il 3 maggio 2021, che intende offrire un contributo all’approfondimento teologico del significato della sinodalità, alcuni orientamenti pastorali in riferimento alla sua attuazione concreta ai vari livelli, e sui riflessi nel cammino ecumenico e nel servizio della Chiesa al mondo. Alla base sta quel concetto di sinodalità legato alla missionarietà della Chiesa ad extra di tipica matrice latinoamericana, perché proveniente da una tradizione interpretativa del Vaticano II che si situa all’interno della dinamica sinodale del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) e delle sue conferenze generali di Medellín (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992) e Aparecida (2007); conferenza, quest’ultima, a cui Bergoglio partecipava come Presidente della Conferenza episcopale argentina e di cui ha redatto, in qualità di Presidente eletto della Commissione, il documento finale, contrassegnato “dall’opzione per i poveri”.
La sinodalità “è dimensione costitutiva della Chiesa”, ha sottolineato il Pontefice nel discorso per il 50esimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015, evidenziando come essa esprima la figura di Chiesa scaturente dal Vangelo, chiamata a incarnarsi nella storia “in fedeltà creativa alla Tradizione”. “Sinodalità”, dunque, col significato di “camminare insieme”: il cammino del popolo di Dio ed il suo radunarsi in assemblea intorno all’Eucaristia in ascolto reciproco dello Spirito Santo, il modus vivendi et operandi specifico della Chiesa, che rivela e sostanzia il suo essere “comunione” quando tutti i suoi membri camminano insieme, si riuniscono in assemblea e prendono attivamente parte alla sua missione evangelizzatrice.
Proprio l’accento posto sull’associazione fra sinodalità e idea di una riforma della “Chiesa in uscita”, dunque missionaria, ha introdotto nel corpo ecclesiale una dinamica di innovazione che ha fatto parlare di una nuova fase di recezione del Vaticano II. Sebbene il termine e il concetto di sinodalità non si ritrovino esplicitamente nell’insegnamento conciliare, la Commissione teologica internazionale ha più volte affermato come l’istanza della sinodalità sia “al cuore” dell’opera di rinnovamento da esso promossa. Il Concilio sottolinea, infatti, la comune dignità di tutti i battezzati, coinvolti ciascuno con il proprio “dono” nella vita e nella missione della Chiesa. Oggi la spinta a realizzare una “pertinente figura sinodale di Chiesa”, come definita dalla stessa Commissione, sebbene sia ampiamente condivisa e abbia sperimentato positive forme di attuazione, appare bisognosa di principi teologici chiari e di orientamenti pastorali incisivi. E questo è proprio l’obiettivo del documento, Praedicate Evangelium, che ha dato origine alla riforma curiale voluta dall’attuale Pontefice: raggiungere quel “discernimento comunitario” che consenta alla Chiesa di essere “casa e scuola della comunione” per realizzare una vera “cultura dell’incontro”, senza dimenticare di prestare attenzione ai problemi giuridici che possono sorgere nel momento in cui la sinodalità si sposta dall’ambito episcopale e va ad incidere sul governo della Chiesa nella realtà locale.
Concetto che il Pontefice aveva introdotto nel Discorso del 2015 in occasione del 50esimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, a seguito anche della proposta rivoltagli dai Capi Dicastero nella riunione del 24 novembre 2014, di assumere la sinodalità tra i principi ispiratori nel lavoro di riforma della Curia romana, al fine di sviluppare tra i Dicasteri un sistema di comunicazione che consenta scambi e condivisioni in grado di evitare duplicati di attività e programmi. Questo principio accompagna il cammino dal titolo Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione, apertosi solennemente il 9-10 ottobre 2021 a Roma e il 17 ottobre seguente in ogni Chiesa particolare, che ha visto il suo punto di arrivo nel sinodo dei Vescovi del 2024, il cui scopo non è quello di fornire “un’esperienza temporanea” di sinodalità, quanto piuttosto un’opportunità a tutto il popolo di Dio di discernere insieme come proseguire sulla strada intrapresa per essere una Chiesa più sinodale a lungo termine.
Tali affermazioni avvalorano la tesi fondamentale sostenuta da Corecco negli scritti della sua maturità scientifica, raccolti in Sinodalità e comunione, secondo cui la sinodalità è una dimensione ontologica della costituzione ecclesiale. Come fa notare Romeo Astorri, essa da un lato non si esprime solo nell’attività dei concili ecumenici o di quelli minori, e dall’altro non si manifesta soltanto per avere valenza teologica e giuridica all’interno della Communio Ecclesiae et Ecclesiarum, non necessitando di forme istituzionali specifiche. Questa tesi si basa sul principio cardine dell’ecclesiologia di Corecco che è sintetizzabile nell’affermazione della reciproca immanenza della Chiesa universale e di quella particolare, un principio che egli ricava soprattutto dal testo contenuto in Lumen Gentium 23, per il quale nelle Chiese particolari e dalle Chiese particolari esiste l’una e unica Chiesa cattolica. E tale immanenza è l’essenza della Communio, intesa come rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale, nella sua bipartizione in Communio hierarchica, cioè Communio dei ministeri, nella quale il Papa esprime tutto il collegio e il collegio comprende lo stesso Pontefice, e in Communio fidelium, in cui si esprime il principio che regola i loro rapporti interpersonali.
In questa visione, il punto centrale sta nella connaturalità della dimensione sinodale al ministero personale del vescovo, radicato nel sacramento e, come tale, sempre aperto alla Communio con le altre Chiese e con il vescovo di Roma, cosicché la sinodalità diventa un elemento essenziale e non additivo della Chiesa particolare. Effettivamente, nel tracciare il contesto ecclesiologico-giuridico della sinodalità, rilevanza fondamentale assumono le strutture sovra-diocesane presenti nella Chiesa e gli organismi di partecipazione istituiti nelle diocesi. Basti pensare al Concilio ecumenico, ai Concili particolari e alle conferenze episcopali per definire la modalità del loro essere sinodali. Come afferma Corecco, nel Concilio, cui partecipano tutti i vescovi con voto deliberativo e che può essere presieduto dal Pontefice che ne rende vincolanti i documenti con la sua approvazione, la sinodalità si rintraccia nell’atto collegiale costituito dalla Communio insita nella convergenza del giudizio dei vescovi con quello del capo del collegio.
Differentemente, nelle conferenze episcopali e nei concili particolari, in assenza del Papa, l’esercizio della funzione sinodale attiene al sacramento dell’ordine ricevuto da ciascun vescovo. Se questo è il livello specifico nel quale si colloca la sinodalità nel rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale, allora per Corecco la sinodalità diocesana va risolta in termini coerenti anche per i presbiteri e per i laici. A suo avviso, per i primi essa è visibile nella loro partecipazione alla pienezza sacramentale dell’ufficio episcopale, in quanto il ministero sacramentale del vescovo si apre ad una dimensione universale e particolare. Anche per i laici, pur non potendosi parlare di sinodalità in senso proprio in quanto sganciata dal sacramento dell’ordine, il fondamento della loro partecipazione agli organismi ecclesiali è comunque di origine sacramentale e va individuato nel battesimo.
Pertanto, quella sinodalità che si connota dopo il Vaticano II in termini di comunione, si manifesta concretamente anzitutto nelle strutture della collegialità episcopale affettiva che si esprime come collegialità effettiva nel sinodo dei vescovi, nei sinodi plenari e provinciali, nelle conferenze episcopali; ma anche, nelle chiese particolari, e quindi, non a livello di collegialità episcopale, nel sinodo diocesano, nel consiglio presbiterale, nel consiglio pastorale diocesano, nel consiglio pastorale parrocchiale; ed in secondo luogo nel Codex, in ordine alla disciplina relativa alle universitates personarum con il can. 115, § 2, poiché la sinodalità affonda le sue radici proprio nella corresponsabilità dei battezzati all’interno della missione della Chiesa e nel sacerdozio comune dei fedeli, concretizzandosi nella partecipazione di questi al governo, per lo più come funzione consultiva.
Come afferma Fernando Puig (Sinodalità, forme di corresponsabilità, e funzione consultiva nella Chiesa, in Annales Theologici, 36/2022, pp. 447-460), la distinzione non dialettica tra deliberativo e consultivo illumina la specificità del governo ecclesiale e consente di operare quel discernimento in grado di evidenziare la ricchezza delle forme di corresponsabilità. Se la finalità di ogni azione sinodale ne determina la migliore manifestazione, sono gli aspetti giuridici a contribuire al conferimento della sua forma. Le ragioni alla base dell’attribuzione di forza deliberativa all’autorità ecclesiale si radicano su considerazioni di tipo sacramentale e costituzionale, specificamente teologiche oltre che giuridiche.
Al principio della sinodalità sono, quindi, legati i criteri della spiritualità, della missionarietà e della sussidiarietà, che ne agevolano la realizzazione. Principio, quello di sussidiarietà, enunciato per la prima volta nella dottrina e della Chiesa al n. 80 della Quadragesimo anno e da Pio XII, nell’Allocuzione ai nuovi cardinali del 20 febbraio 1946, riconosciuto valido anche per la vita sociale della Chiesa. Ogni attività sociale è per sua natura sussidiaria: essa deve servire da sostegno per i membri del corpo sociale, senza recare per questo pregiudizio alla struttura gerarchica della Chiesa.
La visione della Chiesa come comunione, immagine della Trinità, conferisce dinamismo, efficacia ed organicità alla partecipazione del Popolo di Dio, poiché i laici e i consacrati non sono chiamati ad essere meri esecutori di ciò che comanda il clero, ma ciascuno deve fare la sua parte con il proprio contributo, impegnandosi nel discernimento che lo Spirito suggerisce alla Chiesa. Perché, come emerge dalla riforma curiale, la sinodalità non può essere limitata ad una mera estensione dell’esercizio della collegialità, bensì presuppone che l’esercizio della corresponsabilità di tutti i fedeli sia essenziale e vincolante, al fine di realizzare un modello ermeneutico di “istituzionalità ecclesiastica” che funzioni organicamente anche attraverso la costruzione del consenso.
La Lumen Gentium al n. 30 è chiara nel riconoscere che “quanto fu detto del popolo di Dio sia ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e al clero”. Una recezione più pragmatica di tale passo potrebbe permettere alla riforma curiale di andare verso processi di sinodalizzazione basati su un discernimento comunitario capace di riconoscere ed incorporare l’identità e la missione dei laici come soggetti pieni nella Chiesa, alla luce della radicalità del battesimo, che conferisce non solo doveri, ma anche diritti a tutti christifideles.
La sfida sarà capire che siamo una Chiesa in transizione capace di recuperare la dinamica propria della traditio. Se è vero, come fa notare Pierluigi Consorti (La canonistica e le sfide de iure condendo, in La sinodalità nell’attività normativa della Chiesa. Il contributo della scienza canonistica alla formazione di proposte di legge, I. Zuanazzi, M. C. Ruscazio, V. Gigliotti [a cura di], Mucchi, Bologna, 2023, pp. 101-119), che attualmente il diritto canonico non conoscerebbe il processo sinodale, ma solo il sinodo dei vescovi e il sinodo diocesano, dove il potere decisionale spetta esclusivamente al pastore, è altrettanto vero che lo sviluppo in senso partecipativo del diritto canonico non solo esiste di fatto nella realtà globale della Chiesa, ma passa anche per quel discernimento comunitario che attiene al dinamismo del percorso spirituale del Popolo di Dio attraverso la complessità degli eventi, armonizzando i conflitti e trasformandoli in anelli di congiunzione con nuovi processi (cfr. Evangelli Gaudium 227).
Riflettere su come la Chiesa possa essere più sinodale, intendendo la sinodalità come “dimensione costitutiva e costituente” della Chiesa stessa, è una questione di metodo che attiene ai modi ed agli strumenti della comunione e della partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa. Temi, questi, che si incrociano con una miriade di problemi concreti i quali, visti attraverso la lente delle categorie di “partecipazione” e “inclusione”, talvolta presentano anche esplicite richieste che si pongono in netta rottura rispetto a questioni importanti del magistero e della disciplina ecclesiastica. Per questo le potenzialità e le possibilità espansive della sinodalità devono essere lette nel quadro della collegialità episcopale e del primato del Romano Pontefice, nonché della distinzione costituzionale tra chierici e laici e della corresponsabilità dei fedeli. Anche di fronte alle giuste aspettative di rinnovamento nell’accoglienza in vista di comunità più aperte e meno stereotipate o, sotto il profilo della comunicazione, di fronte alla richiesta di un linguaggio chiaro, coraggioso e competente sulle questioni del nostro tempo, la Chiesa non può sottrarsi, come ribadito nel can. 747 § 2, al compito di annunciare sempre e dovunque “i princìpi morali anche circa l’ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigono i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime”. L’esercizio del discernimento a cui i Vescovi e la Chiesa tutta sono specificamente chiamati nell’occasione del Sinodo sulla sinodalità e del “Cammino sinodale delle Chiese in Italia”, è parte dell’arduo compito della cura animarum che, non a caso, Innocenzo III, nel can. 27 del Concilio Lateranense IV, aveva qualificato come ars artium.
La Chiesa di oggi mantiene viva la consapevolezza della necessità di crescere nell’interpretazione e nella comprensione della Parola, accompagnando a tale crescita, come papa Francesco ha sottolineato al n. 41 dell’Evangelii Gaudium, richiamando l’insegnamento di Giovanni Paolo II, un “rinnovamento delle forme di espressione… necessario per trasmettere all’uomo di oggi il messaggio evangelico nel suo immutabile significato”.
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