Il giorno di Natale, Riccardo Cristiano ha pubblicato su Formiche.net un articolo in cui sintetizza una conversazione che abbiamo avuto insieme sul futuro della Chiesa (Francesco, il Natale e il futuro della Chiesa. Parla Borghesi). Su invito di alcuni amici ne riprendo qui taluni punti essenziali sui quali mi pare importante portare l’attenzione.



Viviamo, com’è evidente, un momento particolare, drammatico, in cui la voce del Papa è risuonata forte, in questi mesi, nel denunciare la tragedia della guerra che opprime l’Ucraina. Un vigore, quello del Pontefice, che non ha tuttavia impedito il moltiplicarsi di articoli e di analisi concordi nel sottolineare una fase di stallo nel pontificato, quasi una sorta di declino dopo anni in cui il progetto di rinnovamento della Chiesa, portato avanti da Francesco, era risuonato forte e chiaro.



Si può osservare come molte di queste analisi critiche provengano proprio da coloro che, in precedenza, avevano avversato il disegno riformatore del Papa. È indubbio infatti come il modello proposto da Francesco in Evangelii gaudium abbia frenato, e in taluni casi ridimensionato, quel movimento di reazione, decisamente conservatore, che ha caratterizzato la Chiesa dopo la caduta del comunismo. Un movimento che si è concentrato solamente su alcune battaglie etiche dimenticando totalmente il binomio evangelizzazione-promozione umana richiamato da Paolo VI nella Evangelii nuntiandi del 1975. Questo moto, dopo che i suoi referenti “imperiali” Trump e Putin sono caduti in disgrazia, appare oggi meno forte. Le accuse al Papa di non essere “ortodosso” hanno perso di mordente.



Nondimeno proprio ora, quando il vento contro la sede di Pietro appare meno violento, si avverte la necessità di una nuova stagione, di un “salto in avanti” come scrive Cristiano, di un “cammino che riporti nell’attualità, nel mondo di oggi, l’annuncio cristiano”. A tal fine nella sintesi proposta da Cristiano venivano proposti tre punti su cui la Chiesa è chiamata oggi a riflettere.

Il primo riguarda la dialettica polare tra formazione intellettuale del clero e pratica pastorale. È un fatto che seminari ed università ecclesiastico-pontificie soffrono la mancanza di una formazione adeguata, di un pensiero cattolico capace di misurarsi con la sfida di un mondo complesso, profondamente secolarizzato. Dopo l’abbandono del modello neoscolastico, astratto e palesemente inadeguato, la Chiesa non è stata in grado di proporre una formazione intellettuale adeguata ad una prospettiva missionaria. Non è in grado, dopo la scomparsa dei grandi maestri che hanno preparato il Concilio Vaticano II, di offrire un “pensiero cattolico”.

Nelle facoltà pontificie il biennio filosofico risulta scollegato, separato rispetto al triennio teologico. Non è funzionale rispetto alla teologia sia sotto l’aspetto storico che sotto quello dogmatico. In molti casi, con il privilegiare orientamenti tendenzialmente idealistici, rischia di risultare antitetico rispetto al realismo richiesto dal dato rivelato. Non tiene presente la priorità della realtà sull’idea che, secondo Jorge Mario Bergoglio, costituisce uno dei principi fondamentali della gnoseologia. In ogni caso l’orientamento dominante in filosofia appare per lo più eclettico, una mescolanza eterogenea di autori e di correnti. Il giovane studente, che un giorno dovrà essere parroco ed educatore, ne ricava ben poco di utile, nessun orientamento ideale chiaro e persuasivo.

Considerazioni analoghe valgono per il triennio teologico. Anche qui vige, in larga misura, un sostanziale eclettismo, una disattenzione per la prospettiva realista a favore di indirizzi trascendentali poco attenti alla storicità del Fatto cristiano e alle valenze esistenziali della fede. Il mancato collegamento con la filosofia si riflette, d’altra parte, nella povertà di un pensiero teologico che non è più capace di rivolgersi se non agli addetti ai lavori. La teologia, priva di filosofia, è divenuta afona, non possiede più pensiero e linguaggi per rivolgersi agli uomini di oggi.

Per questo si impone un ripensamento complessivo. Il pensiero teologico che ha reso possibile il Vaticano II richiede di essere approfondito in relazione al momento presente. Diversamente avremo una pratica pastorale senza respiro ideale, un volontarismo etico condannato a spegnersi. La polarità tra contemplazione e azione, che la Chiesa ha sempre tenuto presente, deve essere ripensata. Per questo una riforma complessiva degli studi ecclesiastici appare importante.

Il Papa per la sua storia ha piena consapevolezza del problema. Nel 1976, da responsabile del Colegio Máximo di Buenos Aires, operò una profonda revisione del curriculum degli studi. Come ci ricorda il suo biografo Austen Ivereigh: “Reintrodusse il giunorato (l’insegnamento di base di uno o due anni in arte e discipline classiche) e ripristinò la separazione tra filosofia e teologia per sostituire quello che in una lettera del 1990 a padre Bruno aveva definito ‘il miscuglio di filosofia e teologia chiamato curriculum, dove si cominciava studiando Hegel’ (sic!)” (Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Milano 2014, p. 166). La distinzione tra filosofia e teologia diviene chiara alla luce della dialettica polare di Romano Guardini, autore molto caro al Papa. L’antropologia guadagnerebbe molto dall’assunzione di tale modello.

Oltre alla riforma degli studi un altro punto importante per fare un  passo in avanti è dato da una seconda polarità da tenere presente: quella tra parrocchia e movimenti. Francesco, per la sua storia personale legata all’America Latina, nutre una predilezione particolare per il modello parrocchiale. Ha senz’altro ottime ragioni. In America latina, come mi spiegava la Madre generale delle Suore Passioniste, “le Parrocchie sono chiamate Comunità, ed ogni Parrocchia ha varie, a volte anche 80-100, altre Comunità satelliti tutte appartenenti alla Parrocchia. Ognuna ha le proprie “liderancas”, leadership formate da laici che coordinano la pastorale”.

Si tratta di un quadro ricco e complesso, diverso da quello tipicamente europeo. Da noi la parrocchia raramente presenta caratteri così palesemente “popolari”. Si limita, spesso, a messe, battesimi, matrimoni, funerali. Talvolta è piena di vita, molto spesso è tristemente deserta. Raccoglie molti anziani, pochi giovani. Non solo le parrocchie, per altro. Anche i movimenti, che hanno costituito negli anni 70-80 una sorta di punta di diamante ecclesiale, palesano negli ultimi anni stanchezza e riflusso. Il Papa ha manifestato in più occasioni i limiti di talune impostazioni eccessivamente carismatiche e comunitarie, poco attente alla libertà delle persone. I richiami del Papa correggono, tracciano un cammino, indicano modalità attraverso cui il carisma dei fondatori può essere rinnovato e non meccanicamente ripetuto. Francesco ha dimostrato, in tal modo, di credere ancora alla fecondità e alla utilità dei movimenti per la Chiesa di oggi. Nei movimenti la dimensione “laicale” della Chiesa ha dimostrato di poter pervenire ad un’autentica maturità, al punto da sviluppare una testimonianza cristiana adulta e creativa dentro le scuole, le università, i luoghi di lavoro. Ambiti tradizionalmente lontani dall’orizzonte delle parrocchie.

La polarità tra parrocchie e movimenti, tra la dimensione familiare della stabilità territoriale e quella esterna degli ambiti di studio e di lavoro, può allora costituire un fondamentale fattore di vita per la Chiesa del terzo millennio. A tal fine l’esperienza dei movimenti, oltre ad essere corretta, deve anche essere paternamente ed intelligentemente sostenuta dall’autorità ecclesiale.

La terza polarità che deve guidare la presenza della Chiesa oggi è quella tra Occidente e non-Occidente. L’Occidente presenta, rispetto all’America del Sud e all’Africa, un tasso di secolarizzazione decisamente più alto. Il Papa, nei suoi anni di pontificato e nei suoi viaggi, ha giustamente privilegiato proprio per questo le periferie del mondo. Non solo per un’attenzione preferenziale verso i poveri, ma anche perché le periferie si mostrano decisamente più recettive verso il messaggio cristiano. Così il “centro” del cristianesimo si è spostato ai bordi. Nondimeno anche qui vale la legge della polarità. Il vecchio mondo appare secolarizzato, senile nella sua fede museale, gravato da un passato continuamente denigrato. Tuttavia questa non è una buona ragione per abbandonarlo al suo destino. Dove la sfida è più grande, là si misura la forza o meno dell’attrattiva cristiana. I giovani di oggi, in Europa e negli Usa, non sono per lo più cristiani tiepidi. Sono nuovi pagani che poco o nulla sanno della fede cristiana. L’Occidente ha una lunga e ricca storia di fede ma questa giace sepolta, nascosta tra i mille detriti della storia. Per trarla alla luce, mostrarla come un tesoro prezioso per l’esistenza odierna, occorrono le due condizioni precedentemente richiamate: una formazione spirituale-intellettuale capace di riattualizzare il passato in modo nuovo ed una esperienza viva della fede, personale e comunitaria, capace di generare testimoni umanamente credibili.

In tal modo le tre coppie polari che abbiamo richiamato – dialettica tra cultura e prassi, tra movimenti e parrocchie, tra Occidente e non-Occidente – profilano un cammino che consente di delineare il volto della “Cattolica” agli inizi del nuovo millennio. La Chiesa ha saputo in questi anni, sotto la guida del Papa, arginare il riflusso di un moto conservatore che spirava forte da oltre Atlantico. Ora abbiamo bisogno di dare forma alla parte positiva contenuta in Evangelii gaudium, alla centralità del kerygma e della testimonianza. Il tempo degli scandali non è passato, le ferite continuano e continueranno a sanguinare, ma la Chiesa non può ripiegarsi sulle proprie piaghe. Deve confessare i suoi peccati, punire i colpevoli, riproporre il volto misericordioso di Cristo al mondo di oggi. A quello secolarizzato in primo luogo.

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