Nel nostro tempo, caratterizzato da nazionalismi messianici, mondi culturali reclusi in angusti recinti e aggressive ideologie neoimperialistiche, può aprire uno spiraglio di luce una vita diversa, un’umanità cambiata.

Max Josef Metzger (1887-1944), che sarà beatificato il 17 novembre, ha testimoniato con la sua vita una verità diversa dalle ideologie. Il sacerdote cattolico tedesco ha, infatti, attraversato l’accidentata e cruenta storia del suo tempo, trafitta da due guerre mondiali, con lo sguardo fisso al cuore della vita vera.



Nel 1916 nel saggio La guerra mondiale. Vittoria o sconfitta del cristianesimo, scandalizzato dagli orrori della guerra provocati da uomini nominalmente cristiani, scrisse parole di fuoco contro i decisori dei destini dei popoli. Per costoro il cristianesimo era solo una sorta di comoda assicurazione per l’aldilà. “Il loro cristianesimo fittizio da semi e mezzi cristiani” aveva causato la bancarotta morale e la nuova terribile piaga contro l’umanità: lo sterminio di altri esseri umani.



Nel suo impegno a favore dell’uomo, Metzger visse con intensa energia morale anche il dopoguerra e l’avanzata del nazionalsocialismo. Egli accettò – nella Germania inebriata di guerra – di essere in minoranza, di soffrire l’incomprensione e la derisione, di subire l’onta di ben tre arresti per affermare un’altra storia. Il suo volto e la sua opera hanno inciso così un segno inconfondibile rispetto a quelli, pur coraggiosi, di altri grandi del suo tempo. Il suo metodo fu diverso, infatti, da quello di altri oppositori del mostro nazionalista. Non si basò solo sulla denuncia valorosa e parresiastica dell’ideologia hitleriana o sulla scelta di eliminare fisicamente i gerarchi nazisti, ma sulla decisione di promuovere e praticare l’educazione alla pace. Non certo, però, per un mero pacifismo inerte o per un quietismo dello spirito, ma un per dialogo intenso e profondo con il suo tempo e con l’alterità, al fine di cogliere il bene vero e giudicare tutto. Uno scavo, dunque, nello spirito proprio e altrui, pronto anche a dire verità scomode.



Nel 1924, infatti, scrisse Abbiamo bisogno di un monarca. E nel suo intervento affermò, andando controcorrente, che il vero sangue puro non era quello ariano, ma quello di Cristo. Il capo di tutto e tutti non era e non avrebbe mai potuto essere un sedicente messia con gli occhi rivolti al suolo, perché asserviti alla volontà di potenza, ma Chi ha dato e dà tutto per tutti.

Nel 1925, cioè l’anno dell’uscita del Mein Kampf, Metzger pubblicò Io cerco i cristiani!. L’intellettuale cattolico, come Diogene di Sinope, appellò le coscienze del suo tempo a uscire dal torpore morale e dall’anestetica assenza di giudizio. Invitò tutti a uscire dalla caverna del nulla e a guardare il vero nella sua totalità. La sua lanterna era lo sguardo illuminato dalla fede: “Sì, io cerco i cristiani che si oppongono alla pazzia di questo mostro che, con freddezza, sta preparando l’arrivo della guerra. Io cerco i cristiani che, con calma, si lasciano dire che sono sciocchi, perché rimangono in minoranza rispetto ai credenti nella violenza, che ingannano il povero popolo. Io cerco i cristiani che sanno perché sono cristiani e che, perciò, antepongono le realtà eterne a quelle temporali: Dio allo Stato, la verità alla propria patria, la giustizia ai propri interessi. Io cerco i cristiani che credono nell’amore, nella pace di Cristo, nel suo Regno, nella vittoria di Dio nel mondo. E che per tali ideali offrono anche l’intima cosa che possiedono e sono pronti a dare anche la propria vita” (trad. dal tedesco di Lubomir Žák).

Il suo impegno morale e spirituale negli anni successivi non conobbe tregua. Egli fondò una fraternità interconfessionale, approfondendo il dialogo ecumenico. Si trattava di sanare ferite, di cucire rapporti, di fare comunità. Metzger fu per tutti fratel Paulus. Non al di sopra gli altri per autorità, per esperienza o per dedizione, ma con gli altri: in mezzo al dolore della lacerazione, nel cuore dei frantumi della separazione. Comprese, in anticipo, che nel tempo della divisione e dell’odio, il primato spettava alla fraternità. Si fece uno con gli altri, perciò, entrando in una comunione personale e viva.

La sua vita in un tempo di morte divenne troppo pericolosa per il sistema totalitario. Diceva altro rispetto a ciò che l’ideologia omicida imponeva di pensare. Il suo io aveva, infatti, scoperto ciò di cui ogni uomo ha veramente bisogno: non la sottomissione a un tiranno, ma l’amore a un re dell’umiltà. Una verità troppo grande che il Potere non poteva sopportare. Metzger venne, perciò, incarcerato e poi ghigliottinato il 17 aprile 1944.

La sua storia drammatica è stata attentamente ricostruita da Lubomir Žák, che ha curato l’opera principale di Max Josef Metzger, La mia vita per la pace. Lettere dalle prigioni naziste scritte con le mani legate (San Paolo, 2008).

Dal testo emerge la commovente umanità del sacerdote che, anche nell’ora dell’umiliazione della sua vita, visse tutto con un cuore misteriosamente dignitoso e grande. Sembrava oltrepassato da qualcosa di più forte che prendeva forma e si vedeva. Un suo compagno sopravvissuto raccontò che, tra i tanti condannati a morte, il sacerdote spiccava per il suo volto luminoso e per il suo portamento pieno di dignità.

Metzger, considerato traditore dai nemici dell’umanità, prima di morire, sentì l’esigenza di stringere al suo cuore le persone che più amava della sua comunità, in special modo l’amica e sorella nella fede Judith Maria. Incise, così, nel corpo della storia, con parole vive per sempre, il suo dolore pieno di amore sanguinante: “Ora il Signore esige proprio l’ultimo sacrificio da me, da noi: che il Suo nome sia benedetto! A lui ho offerto la mia vita per la pace nel mondo e l’unità della Chiesa. Che Egli la accetti e la benedica! Io vado alla morte – anzi alla vita, come credo – con cuore lieto”.

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