Fossimo onesti, dovremmo dare retta e ragione – oltreché chiedergli scusa per il trattamento riservatogli – al buon peccatore Péguy che, disquisendo dei cristiani dei tempi suoi (adesso è diverso, ovvio!), diceva che “non sanno chi è Gesù”. Sapevano, sappiamo, invece molto bene chi è Dio: l’amiamo, l’onoriamo, gli facciamo riverenze e penitenze, ma Gesù mal lo sopportiamo. Questione di guadagno: è facile fare l’adozione a distanza di Dio, il difficile è incontrarlo di/in persona, a quattr’occhi, vis-à-vis.
È l’affare (più) serio della vita di chi si professa cristiano: Gesù, non Dio, oggi è la scommessa più baldanzosa. Perché un Dio semplicemente Dio è un Dio che di diverso dagli altri dèi non avrebbe nulla: non avrebbe bisogno di Betlemme, di un passaporto giudeo, di appartenere ad una genealogia scassata, di una madre, un padre, una bottega. Un Dio perfettissimo, immutabile, intoccabile da una parte, lassù; dall’altra, quaggiù, un Gesù con i calli sulle mani. Occorrerà scegliere da che parte stare. Tutti i santi giorni.
Ci vorrebbe Péguy come consulente esterno del Sinodo in corso (visto che mai l’hanno riaccolto per la sua situazione affettiva “irregolare”) per non vedersi ripetere gli avvilimenti degli uomini e donne di Chiesa. Ci vorrebbe uno del suo coraggio, del calibro suo, della sua statura di peccatore-graziato. Che ritornasse a parlarci del rischio di credere in Gesù e non del minimo sindacale di credere in Dio. Perché è questa la grande eresia nascosta nella Chiesa d’oggi: andare troppo in chiesa (anche se diciamo il contrario), sapere a menadito la storiella di Dio, l’“essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra” e non conoscer affatto chi è Gesù. San Gesù come amava chiamarlo Péguy.
“Ma che differenza c’è tra le due cose?” dirà pure qualcuno, intristendoci ad oltranza per non essersi posto il problema. Qui, invece, giace l’affare Gesù, il mistero divino di Betlemme e dintorni: che per salvare me e i miei amici peccatori, Dio sceglie di diventare Gesù. Di farsi toccare, annusare, bestemmiare e accarezzare. Per farsi interessante per l’uomo, doveva essere leale con lui: non poteva sfruttare il fatto d’essere Dio. Doveva essere esattamente uomo come me, senz’avvalersi di alcun aiuto fraudolento. Come hanno mostrato in presa diretta i santi, doveva Dio farsi avvenimento che accade, non storia raccontata. Obbligato, per forza di cose, ad attraversare la storia degli uomini da uomo, altrimenti avremmo potuto dirgli: “Sì, d’accordo: però tu sei Dio e io sono uomo!” Non si trattò d’obbligo ma d’amore. In caso contrario sarebbe stato un Dio-mummia, un fossile del Cielo.
Un Sinodo guidato dall’animo irritante e onesto di Péguy (Papa Francesco ammette d’essergli devoto) varrebbe la pena di celebrarsi: testimonierebbe la storia di un Dio che, fattosi Gesù, s’è imbarcato nella condizione di chi aspetta il ritorno di me, pecora perduta. Non basta che Dio voglia salvare la pecora che si perde: è necessario che la pecora accetti d’essere salvata. Qualora non lo desideri, non solo rimarrà perduta ma metterà anche Dio nella turpe condizione di doverla condannare, di accettare il suo rifiuto, in nome della libertà datale in anticipo.
Questo, però, i cristiani amanti di Dio non l’accettano; se l’accettano è solo sotto ricatto. Perché credere in un Dio che, facendosi uomo, si pone nella condizione di chi è costretto ad aspettare, è un Dio debilitato, diseredato, un potente che non riuscirà a raccomandarci. Meglio, dunque, un Dio sedato, religioso, fattosi uomo così, per finta, sfruttando l’aiuto fraudolento d’essere Dio. Senz’accorgersi che, seguaci d’un Dio così, l’uomo apparirebbe tonto, imbecille, un babbeo. Uno che al massimo potrà desiderare Dio, ma non permettersi di credere che Dio desideri lui, tanto-quanto.
Ci vorrebbe un Péguy al Sinodo, a parlare alla Chiesa del (suo) san Gesù. Ci vorrebbe qualcosa di nuovo, di mai scritto, mai udito. Ci vorrebbe il Gesù ferito, non il déjà vu del Dio perfettissimo.
Un Dio che (ri)accade facendosi Gesù, altrimenti non serve. O servirà solo a pettinare le bambole: un déjà vu già visto.
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