La modifica principale introdotta dal decreto emanato dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, consistente nella riduzione di tutti i mandati di governo nelle associazioni, enti e movimenti sui quali “esercita vigilanza diretta” ad un massimo di dieci anni, con la riserva di dispensarne eventualmente i soli fondatori, pone qualche elemento di riflessione.



All’interno di quest’universo ci sono infatti movimenti religiosi la presenza dei quali ha caratterizzato in modo più che visibile la vita della Chiesa cattolica a partire dagli anni Cinquanta, in netta controtendenza rispetto alla secolarizzazione dominante e per i quali una tale restrizione introduce un sostanziale mutamento di natura.



Indiscutibilmente, ciò che colpisce in un simile provvedimento è, paradossalmente, il suo buon senso pratico. È noto infatti che in ogni organizzazione – sia essa esterna o interna alla Chiesa – la permanenza di una qualsiasi autorità in modo temporalmente illimitato genera un rischio fondato di derive autocratiche. Infatti, fuori dalla Chiesa, nel nostro universo laico e secolare è proprio una tale preoccupazione ad essere alla base del principio inaggirabile che impone la destituzione da tutte le cariche, una volta sopraggiunti i fatidici limiti di età, qualunque sia il prestigio e l’autorevolezza raggiunta dal singolo. In Svizzera, paese noto per il suo rigore razionale, fece notizia nel 2008 la messa in pensione di Rolf Zinkernagel, premio Nobel per la medicina nel 1996: i suoi 65 anni – un’età non proprio di declino psico-fisico – non gli risparmiarono l’estromissione da tutti gli incarichi accademici, a dispetto dell’indiscusso prestigio che il suo lavoro aveva conferito alla ricerca svizzera e, verosimilmente, a discapito degli ulteriori benefici che avrebbe potuto ancora apportare.



Ma nell’universo della Chiesa, e più in generale nella dimensione di tenace spiritualità che la attraversa, una simile misura non è sottoscrivibile con la stessa serena immediatezza che può avere nel mondo secolare. Non solo un movimento religioso non è un istituto universitario e dentro non vi alloggiano solamente insegnanti e ricercatori selezionati tramite un concorso e studenti formalmente iscritti, ma è un universo vitale strutturato da gente mossa e commossa da un incontro, con tutti i limiti umani possibili, ma anche con la spinta di un innamoramento iniziale sul quale tutti si sono, in qualche modo, giocati la parte più densa e significativa della loro stessa esistenza.

Se gli incarichi istituzionali possono essere oggetto di salutare rotazione, la dinamica di riconoscimento e custodia del carisma è completamente diversa e, in pratica, non può essere sottoposta con lo stesso “senso pratico” con il quale si procede per i primi. Così, per fare un esempio ruvido ed estremo, ma proprio per questo estremamente chiaro, si può rammentare come, tra il XII ed il XIII secolo, solo l’eccezionale longevità degli abati cluniacensi diede loro la possibilità di valutare gli esiti delle scelte fatte e, nel caso, di correggerle e riformarle. Lo splendore di quell’ordine monastico incappò in ben altri limiti rispetto a quello dell’estensione temporale del governo degli abati, che invece ne costituì un elemento di forza. Altri tempi, certamente. Tuttavia, nulla impedisce di pensare che anche l’estensione temporale del pontificato di San Giovanni Paolo II abbia costituito un’opportunità preziosa per Wojtyła, per capire e farsi capire, entrare nel mondo e farsi riconoscere. Saranno gli storici, a tempo debito, ad illustrare la fatica interiore di questa personalità così decisiva nella storia della Chiesa contemporanea.

Fuor di metafora e detto in modo serenamente pacifico: la permanenza in una posizione di governo non è necessariamente la trappola che prepara, per chi la detiene, il delirio del potere assoluto e del personalismo paranoico. Nel passato – sia quello più lontano, quanto quello a noi immensamente più vicino – la permanenza è stata anche occasione di crescita e di verifica. Se l’esercizio del potere burocratico-razionale di governo comporta la necessità di fissare i limiti, da nessuna parte sta scritto che il discernimento implichi necessariamente la rotazione degli incarichi, e pertanto, occorra necessariamente cambiare le persone se si vuole che le tentazioni autocratiche vengano preventivamente stemperate e le innovazioni stabilmente assicurate.

Se una tale prudenza è evidente per tutte le strutture burocratico-razionali, dovrebbe funzionare differentemente là dove si ritiene che sia lo Spirito ad operare. Rintracciare i singoli casi riportandoli a ragione è certamente un atto di paterna responsabilità, modificare completamente la struttura di tutti è una scelta sostanziale, almeno nella misura in cui il “principio di precauzione” – vero signore del mondo – determini più danni di quanti non ne faccia il discernimento, caso per caso. La saggezza, la prudenza e la ponderazione sono infatti dei frutti che maturano con gli anni e non vanno mai in scadenza.

Probabilmente – ed è questa la considerazione che sembra dover essere fatta – un tale principio, per i nostri amici del Dicastero, non è più assicurabile. Il rischio dei personalismi e delle autocrazie sembra essersi fatto troppo impellente per non porvi freno con ridimensionamenti opportuni che non possono più limitarsi a colpire i singoli casi, ma debbono trasformare l’hardware dell’intera struttura.

Ma se così è; se cioè dobbiamo sottoscrivere le buone ragioni che sicuramente stanno dietro e sostengono le scelte del Dicastero per i Laici, allora vuol dire che un altro frammento del mondo secolare è entrato nella Chiesa; che le regole di sana prudenza, di saggia lungimiranza, presenti in qualsiasi organizzazione del mondo secolare debbano oramai necessariamente entrare anche nelle aree dei movimenti ecclesiali, attraverso la porta più sicura che c’è: quella della rotazione degli incarichi, dove il funzionario competente e attento, quindi formalmente sostituibile, prende il posto dell’innamorato appassionato, che invece è sempre un unico.

Ciò implica inevitabilmente il riconoscimento di un limite strutturale dei carismi. Le virtù e la passione che animano il cuore e l’anima di chi dirige, la sua lucidità nel distinguere il vero, non garantiscono più, in quanto tali, dalla tentazione dell’eccesso di potere. Meglio non fidarsi. È un atto di lungimirante prudenza, ma anche, che lo si voglia o no, di soppressione degli affetti. L’afflato carismatico è oramai inevitabilmente messo sotto controllo dalle condizioni burocratico-razionali dell’esercizio della funzione. Una tale sostituzione non è affatto priva di conseguenze e finisce per inquinare la stessa aria che si respira dentro ogni singolo movimento, introducendovi un elemento di razionalizzazione che non fa parte del tessuto interiore di quest’ultimo. Cambiare aria può anche essere utile, ma non si produce senza rischi.

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