In un tuo articolo recente hai scritto: “Ora abbiamo bisogno di dare forma alla parte positiva contenuta in Evangelii gaudium, alla centralità del kerygma e della testimonianza”. Al numero 7 e 8 EG dice: “Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: ‘All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva (..)’”. Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Quanto è attuale recuperare l’esperienza del cristianesimo come avvenimento?
Direi che è essenziale. Da molti anni la percentuale dei cristiani praticanti, in Europa, si va riducendo drasticamente. I giovani risultano essere sempre più estranei alla fede, non sanno più nulla della tradizione cristiana. In questo contesto le parrocchie sono, talvolta, luoghi di vita ma, spesso, sono ambiti in cui il deserto cresce. I “sepolcri di Dio” come scriveva Nietzsche. I movimenti cristiani da parte loro, dopo la felice stagione degli anni 70-90, devono ritrovare una nuova giovinezza, valorizzare il patrimonio di testimonianze in modo creativo. La fede oggi ha bisogno di tornare all’essenziale, al cuore del cristianesimo, a Cristo. La predicazione cristiana, la catechesi, ha sepolto Cristo nella crema dei “valori cristiani”. Cristo è scomparso. Anche quando viene ricordato, come in molte omelie, si tratta di un personaggio mitico, virtuale, ideale, che non ha più alcuna relazione con la storicità dei Vangeli. La catechesi manca chiaramente l’obiettivo. O si mantiene su un piano astrattamente teologico, come avviene nell’orientamento conservatore, o scivola sul terreno sentimentale, come accade in quello progressista. Un uomo del nostro tempo può essere colpito dalla figura di Gesù solo se percepisce che siamo di fronte ad un personaggio “reale”, calato nello spazio e nel tempo dei Vangeli, capace, al contempo, di trascendere quello spazio e quel tempo per arrivare sino a noi. Storico e attuale. In tal modo il cristianesimo può manifestarsi per quello che è: un Avvenimento, un Evento storico che trascende i limiti della storia.
Quale può essere il soggetto nelle attuali circostanze di questa testimonianza?
Oggi, come duemila anni fa, la soggettività cristiana è data da coloro che sono amici di Cristo, vicini a Lui innanzitutto nei sentimenti, nella passione per la vita e per l’umanità che Gesù ha trasmesso con la sua testimonianza. Amici di Cristo e degli altri uomini. La compagnia cristiana non può ridursi ad una compagnia clericale. Di clericalismo stanno morendo gli istituti religiosi che hanno caratterizzato il secondo millennio dell’era cristiana, l’era moderna in particolare. La secolarizzazione sta spazzando via l’insieme degli ordini religiosi, maschili e femminili. Il clericalismo, come fuga in un mondo protetto, è impotente di fronte al vento della secolarizzazione. Occorre qualcosa di nuovo che ripensi, in modo creativo, la tradizione vivente della Chiesa. È il tempo storico che impone questa scelta. La tradizione può essere salvata solo riguadagnandola in modo nuovo, distinguendo criticamente al suo interno ciò è valido da ciò che appartiene al passato. La soggettività cristiana deve oggi procedere in modo snello, semplice, senza la pretesa di conquistare il mondo. Senza accollarsi l’intera storia della Chiesa, con tutti i suoi limiti e finanche le sue miserie. Deve procedere in compagnia dei santi, in compagnia degli amici che condividono con lei la stessa passione per l’umano. Lo stesso affetto per Cristo. La fede si comunica per “attrattiva”, per l’attrazione a e di Gesù. Rappresenta una “comunicazione affettiva”. L’incontro cristiano, la testimonianza umana della fede, precede, esistenzialmente, il dogma. Se non si comprende questo non si arriverà mai al cuore degli uomini del nostro tempo. Cristo può palesarsi come Verità solo perché, innanzitutto, si dimostra essere la Vita, colui che, in un incontro vero, rende più lieta la vita dell’uomo.
Spesso la forma della testimonianza appare attaccata in vecchie formule: pro-vita, insistenza sul diritto naturale, alleanza con il cristianesimo anonimo (destra e sinistra), muri di protezione (soluzione “benedettina”), aspirazione a una certa forma di egemonia (nostalgia del voto unitario)…
Le formule di “compensazione”, compensazione del vuoto di fede, sono innumerevoli. Ciò che le accomuna è la miseria dei risultati. L’errore non sta nel giusto impegno che la Chiesa, il laicato cristiano in particolare, deve mostrare nella difesa dei valori centrati sul diritto naturale. Impegnarsi per il rispetto della vita umana dall’inizio alla fine, per l’affermazione della natura duale uomo-donna, per la libertà di espressione, non ha nulla di reazionario. Solo l’ideologia liberal, trionfante nel neocapitalismo della globalizzazione, può indurre questa persuasione. Senza farsi condizionare i cristiani hanno il dovere di portare il loro contributo, insieme ai non cristiani, per il bene comune. L’errore di prospettiva, in questo caso, può essere duplice. Da un lato nel dividere i valori di destra da quelli di sinistra, l’impegno contro l’aborto e il modello gender contrapposto a quello per i diritti dei lavoratori e per la giustizia sociale. Una divisione che favorisce la polarizzazione tra un cattolicesimo di destra ed uno di sinistra. La dottrina sociale della Chiesa non conosce queste polarizzazioni, offre una visione integrale dell’uomo e della società. Chi concepisce la democrazia come tutela dei più deboli unirà la lotta contro la violenza verso il nascituro a quella per la difesa degli anziani e degli emarginati sociali. D’altra parte, su un terreno propriamente teologico, l’errore di prospettiva sta nel pensare che il (giusto) impegno nella difesa dei valori “cristiani” possa sostituire la testimonianza della fede in un mondo post-cristiano. Come se il ristabilimento di una società fondata sul diritto naturale venisse a coincidere con un “mondo cristiano”. Si tratta di una illusione che induce la Chiesa a schierarsi, a farsi partito, alleata di quelle forze che, più o meno strumentalmente, la usano per i loro scopi. Atteggiamento favorito dalla miopia della sinistra liberal, che nel suo anticlericalismo è condannata a fare sempre il gioco della destra. La Chiesa ha il dovere di ricordare ai cristiani e a tutti i fondamentali valori dell’umanesimo contro ogni tirannia. Non deve però identificarsi semplicemente con una parte. Il suo compito è di comunicare l’umanità nuova di Cristo al mondo, a quello dei clericali e a quello degli anticlericali. A tutti, senza farsi asservire da nessun carro politico.
Francesco nel suo viaggio in Canada ha detto che “la secolarizzazione ci chiede di riflettere sui cambiamenti della società, che hanno influenzato il modo di pensare e organizzare la vita. Dunque, non è la fede a essere in crisi, ma certe forme e modi in cui la annunciamo. Pertanto, aggiungeva, la secolarizzazione è una sfida per il nostro immaginario pastorale”. In questo contesto, è necessaria, evidenziava, “una testimonianza traboccante di amore”. Stiamo parlando dell’Occidente. In che senso la secolarizzazione può essere un’occasione?
Costituisce un’occasione perché costringe la fede ad uscire all’“aperto”, ad abbandonare recinti protetti e comode certezze. Una cosa è ritrovarsi tra credenti, altra è dialogare con chi ha tutt’altre convinzioni. La secolarizzazione sfida nei suoi stili di vita, nei suoi modelli, nelle sue concezioni del mondo. Qui una fede che vuol solo conservare è condannata a perdere tutto. Se la fede vuol vivere deve “rischiare”, deve giocarsi la faccia. E questo secondo modalità gratuite di relazioni, consapevoli che il cambiamento della vita è opera della Grazia. Si tratta, inoltre, di rischiare giudizi su ciò che accade, di portare un contributo originale, non ovvio, sul proprio tempo. I giudizi “cattolici” sono spesso prevedibili. Al contrario devono essere “critici”, capaci di distinguere positivo e negativo, di delineare gli scenari storici fondamentali anche per comprendere “come” la fede può rispondere alle attese del tempo. Da ultimo la fede oggi, nel contesto secolarizzato, è chiamata a generare pratiche di solidarietà, di condivisione dei bisogni, di amicizia tra le persone e tra i popoli. Nella solidarietà maturano gli incontri e i destini si incrociano secondo modalità imprevedibili.
Perché dici che “l’esperienza dei movimenti, oltre ad essere corretta, deve anche essere paternamente ed intelligentemente sostenuta dall’autorità ecclesiale”?
I movimenti, così importanti nella vita della Chiesa nel corso degli ultimi 50 anni, hanno certo bisogno di rinnovarsi, di ritrovare creativamente uno slancio nuovo a partire da un’intelligente considerazione della propria storia e dalla valorizzazione dei testimoni che ne hanno segnato il cammino. L’errore più grave in questi casi è di cadere nell’apologia, nell’enfasi sulla propria unicità, nell’idea non cattolica di essere senza errori. Una rivisitazione critica del passato è la premessa per una ripartenza nel presente che faccia tesoro dei propri limiti. In questo senso la funzione correttiva operata dall’istituzione ecclesiale è fondamentale. Deve però rappresentare una correzione “paterna” e non padronale. I movimenti costituiscono, al presente, la dimensione adulta del laicato cattolico e l’episcopato che afferma di voler valorizzare il laicato non può non trovare qui un’espressione di primo livello. Per questo ogni correzione deve essere accompagnata da una valorizzazione. Se togliamo i movimenti e le associazioni cosa rimane del laicato cattolico impegnato? La Chiesa deve custodire gelosamente questo patrimonio se vuole evitare il clericalismo.
Anche tu dici: “la Chiesa non è stata in grado di proporre una formazione intellettuale adeguata ad una prospettiva missionaria”.
Nell’articolo che tu hai richiamato prima affermavo: “È un fatto che seminari ed università ecclesiastico-pontificie soffrono la mancanza di una formazione adeguata, di un pensiero cattolico capace di misurarsi con la sfida di un mondo complesso, profondamente secolarizzato. Dopo l’abbandono del modello neoscolastico, astratto e palesemente inadeguato, la Chiesa non è stata in grado di proporre una formazione intellettuale adeguata ad una prospettiva missionaria. Non è in grado, dopo la scomparsa dei grandi maestri che hanno preparato il Concilio Vaticano II, di offrire un ‘pensiero cattolico’. Nelle facoltà pontificie il biennio filosofico risulta scollegato, separato rispetto al triennio teologico. Non è funzionale rispetto alla teologia sia sotto l’aspetto storico che sotto quello dogmatico. In molti casi, con il privilegiare orientamenti tendenzialmente idealistici, rischia di risultare antitetico rispetto al realismo richiesto dal dato rivelato. Non tiene presente la priorità della realtà sull’idea che, secondo Jorge Mario Bergoglio, costituisce uno dei principi fondamentali della gnoseologia. In ogni caso l’orientamento dominante in filosofia appare per lo più eclettico, una mescolanza eterogenea di autori e di correnti. Il giovane studente, che un giorno dovrà essere parroco ed educatore, ne ricava ben poco di utile, nessun orientamento ideale chiaro e persuasivo. Considerazioni analoghe valgono per il triennio teologico. Anche qui vige, in larga misura, un sostanziale eclettismo, una disattenzione per la prospettiva realista a favore di indirizzi trascendentali poco attenti alla storicità del Fatto cristiano e alle valenze esistenziali della fede. Il mancato collegamento con la filosofia si riflette, d’altra parte, nella povertà di un pensiero teologico che non è più capace di rivolgersi se non agli addetti ai lavori. La teologia, priva di filosofia, è divenuta afona, non possiede più pensiero e linguaggi per rivolgersi agli uomini di oggi. Per questo si impone un ripensamento complessivo. Il pensiero teologico che ha reso possibile il Vaticano II richiede di essere approfondito in relazione al momento presente. Diversamente avremo una pratica pastorale senza respiro ideale, un volontarismo etico condannato a spegnersi. La polarità tra contemplazione e azione, che la Chiesa ha sempre tenuto presente, deve essere ripensata. Per questo una riforma complessiva degli studi ecclesiastici appare importante”.
Olivier Roy parla di “santa ignoranza” per riferirsi alla diffusione della religiosità irrazionale. In che modo questo influisce sul cattolicesimo?
Rifluisce direttamente in taluni movimenti che ricalcano stili e metodi derivati da una spiritualità protestante. In questo caso l’emotivismo prende il sopravvento e il contenuto dogmatico e liturgico si perde nello sfondo assumendo forme bizzarre, palesemente irrazionali. Rifluisce indirettamente laddove, come si è detto, la formazione teologica, assimilata nei seminari e nelle facoltà ecclesiastiche, risulta debole, disorganica, incapace di misurare la connessione tra i trascendentali dell’Essere: il bello, il buono, il vero. La bellezza e la bontà precedono, esteticamente ed esistenzialmente, la verità ma non la sostituiscono. La manifestano. In tanta catechesi odierna invece i due trascendentali iniziali tolgono il terzo. Per questo la fede invece di essere una “conoscenza amorosa” del Vero diviene una scelta arbitraria, irrazionale, puramente emotiva. Gesù è la Via, la Verità, la Vita. Se la teologia e la catechesi separano i tre momenti il cuore del cristianesimo si dissolve.
Ricompare (come al tempo delle accuse moderniste) la paura della categoria dell’esperienza nella fede. C’è paura di un eccesso di “emotività” e di soggettivismo”. L’esperienza del credente è soggetta a conferma clericale. Perché accade questo?
La nozione di “esperienza” è entrata finalmente nel lessico teologico dopo che, a causa dei limiti della impostazione modernista, era stata bandita a lungo dal linguaggio cristiano. È entrata ed è un bene. La sua presenza corregge l’impostazione “oggettivistica” della Neoscolastica neotomistica per la quale la ragione era chiamata a riconoscere il dogma secondo una modalità puramente intellettuale. In realtà nel riconoscimento amoroso della verità cristiana, cioè nel consenso rappresentato dalla fides, dalla fiducia, entra in gioco la ragione, il cuore, la volontà libera. Entra in gioco l’esperienza intesa non in modo meramente emotivo, come vuole il modernismo, ma in modo organico. Si ha esperienza autentica laddove si assiste alla verifica della corrispondenza tra ciò che si incontra e la natura propria del soggetto. Una natura qualificata, tomisticamente, da una serie di inclinazioni fondamentali (felicità, amore, giustizia, verità) che costituiscono l’essenza ideale di ogni uomo. Là dove la percezione di questa corrispondenza attuale si realizza, lì la fede mostra tutta la sua ragionevolezza. La fede non rappresenta mai una opzione immotivata. Costituisce il risultato di una verifica tra ciò che l’uomo attende e la Presenza di Dio che colma il suo desiderio. Agostino lo ha perfettamente compreso e da questa scoperta sorge la sua teologia “esistenziale”. Colui che nella seconda metà del ‘900 ha riattualizzato questa prospettiva, facendone il perno dell’antropologia e del metodo educativo, è stato don Luigi Giussani. Grazie ad esso migliaia di giovani sono potuti divenire cristiani perché si sono accorti, in una relazione amicale, che la proposta cristiana corrispondeva pienamente alle attese del loro cuore e della loro intelligenza.
(Fernando De Haro)
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