La pubblicazione di Sinodalità e comunione (EDB, 2023), nel quale sono raccolti i testi di Eugenio Corecco sulla sinodalità, rappresenta una felice occasione per conoscere il contributo da lui dato alla riflessione teologica e canonica intorno ad un tema che è stato riportato all’attenzione di tutti dalla recente conclusione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Si tratta di scritti che risalgono i primi due agli anni 70, e gli altri ai primissimi anni 90, qualche anno prima della morte avvenuta nel 1995 e già presenti in Ius et Communio, la raccolta più importante dei suoi scritti scientifici.
Come risulta evidente dalla data della loro prima pubblicazione, sono testi nati in un contesto teologico e culturale molto diverso da quello odierno e sarebbe sciocco non tenerne conto, anche se chi ha preso l’iniziativa di pubblicarli ha già dato un’implicita risposta positiva in ordine alla loro importanza per il dibattito odierno. Le riflessioni sul volume contenute in queste righe vogliono essere un ulteriore contributo, che speriamo possa essere utile. Una premessa opportuna a queste righe è la precisazione che il tema della sinodalità è stato l’argomento della prima rilevante ricerca in ambito scientifico del canonista ticinese, che ha elaborato e discusso con uno dei grandi maestri della canonistica del secolo scorso, Klaus Mörsdorf, un dottorato il cui oggetto era la formazione della Chiesa negli Stati Uniti attraverso la sua attività sinodale.
In questi scritti, che appartengono alla maturità scientifica, la tesi fondamentale sostenuta da Corecco è che la sinodalità è una dimensione ontologica della costituzione ecclesiale. Essa non si esprime solo nell’attività dei concili ecumenici o di quelli minori, e, per avere valenza teologica e giuridica all’interno della Communio Ecclesiae et Ecclesiarum, non necessita di forme istituzionali specifiche. Questa tesi è fondata a partire dal principio cardine della ecclesiologia di Corecco che è sintetizzabile nell’affermazione della reciproca immanenza della Chiesa universale e di quella particolare, un principio che egli ricava soprattutto dal testo contenuto in Lumen Gentium, 23, per il quale nelle Chiese particolari e dalle Chiese particolari esiste l’una e unica Chiesa cattolica. E tale immanenza è l’essenza della Communio non solo come rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale, ma anche come Communio hierarchica, vale a dire Communio dei ministeri, nella quale il papa esprime tutto il collegio e il collegio comprende il papa e, infine, come Communio fidelium, nella quale si esprime il principio che regola i loro rapporti interpersonali; l’identità del fedele, infatti, è determinata dalla sua appartenenza al popolo di Dio, il corpo mistico della Chiesa, per cui “tutti gli altri fedeli sono realmente immanenti alla sua persona”.
In questa visione, il punto centrale mi sembra essere la connaturalità della dimensione sinodale al ministero personale del vescovo, radicato nel sacramento e, come tale, sempre aperto alla Communio con le altre Chiese e con il vescovo di Roma. Attraverso il ministero episcopale, costitutivo della Chiesa particolare che è personale e sinodale, in quanto “ogni vescovo è ontologicamente determinato dal fatto che anche gli altri vescovi possiedono lo stesso e unico sacramento dell’ordine”, la sinodalità è un elemento essenziale e non additivo anche della Chiesa particolare. Il suo essere strutturalmente sinodale è dimostrato poi nel fatto che il vescovo non può esistere senza i presbiteri, la cui presenza non può avere solo un significato funzionale, ma deriva dalla necessità che la Chiesa particolare, sia pure in modo analogico, abbia la struttura sinodale della Chiesa universale.
Senza pretendere di esaurire tutte le problematiche toccate dall’autore, dopo essermi soffermato sul percorso teologico che permette di definire il contesto ecclesiologico-giuridico della sinodalità, in questa breve recensione mi sembra interessante soffermarsi su altri due punti: le strutture sovradiocesane presenti nella Chiesa e gli organismi di partecipazione istituiti nelle diocesi. Corecco prende in esame il Concilio ecumenico, i Concili particolari e le conferenze episcopali per definire la modalità del loro essere sinodali. Nel Concilio, cui partecipano tutti i vescovi con voto deliberativo e che può essere presieduto dal papa, che ne rende vincolanti i documenti con la sua approvazione, la sinodalità sta nel fatto che l’atto collegiale non è costituito dalla volontà della maggioranza, ma dalla Communio insita nella convergenza del giudizio dei vescovi con quello del capo del collegio. Negli altri casi l’esercizio della funzione sinodale, in assenza del capo del collegio episcopale, lo porta a concludere che la sinodalità delle conferenze episcopali e dei Concili particolari sia inerente al sacramento dell’ordine ricevuto da ciascun vescovo.
Identificato il livello specifico nel quale deve collocarsi la sinodalità nel rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale, per Corecco va risolto in termini coerenti anche il significato per i presbiteri e per i laici della sinodalità diocesana. A suo avviso, per i primi esso va visto nella loro partecipazione alla pienezza sacramentale dell’ufficio episcopale, in quanto, come detto, il ministero sacramentale del vescovo si apre ad una dimensione universale e particolare. Ritiene più complesso individuare il fondamento della partecipazione dei laici a questi organismi. Nella sua visione, tale fondamento, che deve essere anch’esso sacramentale, non può che essere il battesimo, e proprio in forza di tale soluzione ritiene che, in questo caso, non si possa parlare in senso proprio di sinodalità, che trova il suo fondamento nella partecipazione al sacramento dell’ordine.
Dalla lettura di questo testo emergono, a mio avviso, rilevazioni e provocazioni non solo per la teologia e per la canonistica, chiamate a confrontarsi con una serie di conclusioni teologiche e giuridiche di cui valutare la tenuta alla luce della riflessione teologica e canonica di questo mezzo secolo.
Io mi limito, perciò, a proporre alcune linee di riflessione. La prima nasce dalla lettura che Corecco fa della sinodalità come dimensione costituzionale per la vita della chiesa, la cui esistenza non può essere ridotta alle strutture collegiali dove, di norma, si ritiene debba esprimersi. Un richiamo che mi pare avere una doppia valenza, in quanto permette di estenderne, sia pure in termini anche analogici, il perimetro a tutta la Chiesa, ma proprio per questo impone una rigorosa riflessione teologico-giuridica su di essa.
Una seconda considerazione riguarda le problematiche connesse al tentativo di Corecco di dare, dall’interno della teologia e del diritto della Chiesa, da lui considerato disciplina teologica con metodo teologico, un fondamento alle istituzioni in cui si esprime giuridicamente la sinodalità, rifiutando di usare nozioni (rappresentanza, parlamentarismo, potere) dipendenti concettualmente dalla dottrina giuridica moderna sull’origine del potere, che, a suo avviso, porterebbero a riforme di natura puramente tecnico-giuridica assolutamente insufficienti.
Una terza e ultima riflessione riguarda la Communio fidelium, guardata come il principio alla base del superamento delle attuali strutture sinodali (e la determinazione di nuove), vale a dire il fatto che l’uomo nuovo che è il cristiano le pensi come ambiti di comunione viva, nelle quali non si rappresenta democraticamente la fede degli altri, ma si realizza l’esperienza di fede comune a tutto il popolo di Dio.
E, infine, a conclusione di queste righe, mi piace riprendere, perché le ritengo emblematiche del suo pensiero, le parole scritte nell’introduzione del suo lavoro di tesi: “la Chiesa americana rappresenta nella storia moderna l’esempio più clamoroso di come una Chiesa particolare si sia sviluppata in base ad un regime essenzialmente sinodale”, a testimonianza del fatto che la sinodalità non può essere guardata solo come “traduzione programmatica sul piano strutturale di una dottrina teologica, ma come imperativo di una coscienza sinodale che nasce dalla consapevolezza che l’Ufficio episcopale possiede essenzialmente una componente sinodale”.
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