L’entrata di Roberto Formigoni nel carcere di Bollate – dove si è spontaneamente recato non appena informato della sentenza della Corte di Cassazione – non ha nulla di banale, né rientra nell’ordinaria amministrazione. Banale non è l’accusa (corruzione) né la condanna (5 anni e 10 mesi) né ancor meno l’imputato. Roberto Formigoni non è stato solo il governatore della Lombardia ed un politico italiano di primo piano, ma è soprattutto un Memores Domini, cioè un laico consacrato appartenente ad un’associazione di diritto canonico riconosciuta dalla Chiesa e fondata da mons. Luigi Giussani. Si tratta di laici che vivono in piccole comunità mettendo insieme una parte dei loro guadagni per le spese comuni e soprattutto che cercano di vivere una prossimità maggiore a quella fede religiosa che percepiscono come una parte qualificante e preziosa di sé stessi; quindi da non disperdere, da non inquinare, ma da fortificare in un impegno condiviso di attenzione a Cristo e di memoria dell’Incarnazione. Proprio per questo si tratta anche di laici che si spendono nel mondo e per i quali l’attività professionale che ciascuno svolge è parte integrante della loro vocazione e ne risente sensibilmente, cercando di essere il più possibile all’altezza delle proprie responsabilità e dell’attenzione agli altri.
Ed anche qui si dice ancora poco. Per chi come me ha studiato il movimento di Comunione e liberazione attraverso i documenti ufficiali, le lettere e i comunicati pubblici, e quindi i testi e gli articoli (soprattutto quelli di quanti hanno criticato questo movimento) Roberto Formigoni ha anche rappresentato, per anni, una delle figure di riferimento più attive, ma anche e soprattutto una delle più visibili, in ragione del suo impegno politico e del suo successo come presidente della Regione Lombardia, confermato a più riprese dagli elettori e, proprio per questo, durato 18 anni.
È significativo che l’avvocato Coppi, responsabile della sua difesa, abbia dichiarato che l’accusa non sia riuscita ad intercettare un solo euro, né un solo illecito amministrativo. Né abbia potuto dimostrare che “le utilità” messe a disposizione del governatore della Lombardia costituissero prove di corruzione.
Sono pertanto gli stili e i lussi ad avere inquietato la magistratura inquirente. Le cene e i vini e, soprattutto, quei tuffi dalla barca (eh già, che orrore), le giacche, magari l’espressione beffarda e poi quell’insopportabile ribattere colpo su colpo. Ma forse, ancora di più, resta il fastidio del trionfo, della vittoria non nascosta; quell’andare in giro a “testa alta”, magari con l’aria da “primato” così indisponente, soprattutto per chi quel confronto lo aveva perso.
Ricordo come, durante la mia ricerca su Comunione e liberazione, gli scettici e i critici di questo movimento ne criticassero soprattutto le forme esteriori e desse loro fastidio la fierezza delle affermazioni e dei comportamenti. Abituati ad un cattolicesimo modesto e penitenziale (quello che Tocqueville stigmatizzava come il cattolicesimo “tutto sagrestia e patate in umido”) molti critici non riuscivano a mandare giù lo stile dei ciellini, che alle patate in umido preferivano la grigliata di pesce e controllavano l’etichetta del vino, rinviandolo indietro se “sapeva di tappo”.
Si può essere condannati per questo? Certamente no e sicuramente i nostri amici magistrati lo confermeranno. Ma al posto dell’invidia (sentimento plebeo) resta il sospetto (attitudine elitaria), l’impossibilità a credere che dietro i legami d’affari ci possano essere amicizia, stima reciproca, corrispondenza di un progetto che ha reso la sanità lombarda un modello per l’Italia e l’Europa. Ed è il sospetto portato ai massimi livelli che ha finito per valere come prova, visto che non è stato documentato nessun illecito, né rintracciato nessun euro.
Resta allora una giustizia figlia della cultura del sospetto, alla quale io stesso e tutta la mia generazione siamo stati educati. Resta la convinzione che, alla fine, solo gli affari contino e non ci sia nulla di peggio dell’illudersi che non abbiano peso, che non siano decisivi. Quei magistrati, probabilmente, sono tutta gente della mia generazione, disincantata e amara, convinta che il bene e il buono, in fin dei conti, semplicemente non esistano. Dietro c’è tutta la mestizia di una generazione che ha perso tutte le battaglie ideali possibili e si è arresa al primato della razionalità strumentale, dove non possono non esserci che interessi materiali o di potere, gli unici a contare veramente.