“Benvenuta questa presa di posizione di don Carrón, perché negli ultimi tempi si era invece assistito a una certa, sia pure alla spicciolata, presa di posizione del mondo cattolico che sembrava aver fatta propria la linea della paura”. Claudio Martelli, che nel 1990 in quanto vicepresidente socialista del Consiglio affrontò l’emergenza dei 23mila albanesi sbarcati sulle coste della Puglia, reagisce così alla lettura dell’intervista che don Julián Carrón ha rilasciato al Corriere della Sera sui temi dell’Europa, del sovranismo e dell’immigrazione. “Una presa di posizione del leader di Comunione e liberazione – aggiunge subito Martelli – in cui ho ritrovato, per quel che ho conosciuto di don Giussani, quel medesimo afflato:  quell’idea cioè della Presenza, intesa come presenza di Cristo, in un’immedesimazione che ha ispirato tutta la vita di don Giussani, che spinge alla massima apertura, alla massima solidarietà, a farsi tutt’uno con chi sta vivendo il dolore, la malattia, la sofferenza, la miseria, l’infelicità. In tal senso dico benvenuta questa presa di posizione, perché non cede all’imperante malattia politica del nazionalpopulismo, termine che ho introdotto nel dibattito pubblico perché lo preferisco a sovranismo, espressione elegante del nazionalismo”.



Secondo lei, perché nazionalismi e sovranismi hanno preso il sopravvento in così pochi anni?

Qualche giorno fa Galli della Loggia, sempre sul Corriere, imputava questa responsabilità alle élites che hanno governato negli ultimi trent’anni l’Occidente nel suo senso più ampio, visto che Europa e Usa sono oggi accomunate dall’identica visione divisiva, aggressiva, identitaria, in una mescolanza, aggiungo io dal punto di vista politico, di nazionalismo e populismo. Il punto di svolta è il 1989. Il crollo dei muri e la fine del comunismo internazionale sembravano aver aperto un’era di libertà, come se avessimo messo alle spalle tutto ciò di soffocante che avevamo fino a quel momento vissuto, dalla contrapposizione in blocchi tra Est e Ovest alla corsa agli armamenti. Sembrava si potesse inaugurare un’epoca più pacifica, aperta al dialogo. Così non è stato.



Perché? Che cosa è avvenuto?

Perché, come dice Carrón, il nostro mondo, figlio dell’Illuminismo, ha prodotto questa forma di globalizzazione che ha separato gli ideali universalistici dell’Illuminismo dal loro fondamento, che poi sono gli uomini, i singoli uomini. E’ una spiegazione suggestiva, che però apre un altro interrogativo: la Chiesa, per lungo tempo, si è opposta ai valori dell’Illuminismo, l’eguaglianza, il primato della ragione, delle scienze, la modernità con il suo corredo di diritti e di spinta al progresso in tutti i campi. Tutto questo mi sembra difficile buttarlo via.



Ma il progresso non è mai magnifico e progressivo, come diceva Leopardi…

Sì, il progresso è sempre pieno di tragedie, di sangue e di sudore, dei singoli e dei popoli. La storia è multiforme e complessa, ma in linea di massima c’era una direzione. E questo non ha impedito nel Novecento l’imporsi di ideologie totalitarie come il comunismo e il fascismo, ideologia che non è del tutto morta, come vediamo. Abbiamo conosciuto tragedie immani ben peggiori di quelle attuali. Quindi per chi fa politica,  che come diceva Paolo VI è “la forma suprema di carità”, cioè di apertura verso gli altri, forse la parola che in questa temperie storica manca è la responsabilità. Ci si è sbarazzati con troppa faciloneria delle ideologie, con tutti i loro limiti, progressi e aberrazioni, ma non è che poi sia scomparso tutto, che siano sparite tutte le idee generali.

Che cosa è rimasto?

A poco a poco questo azzeramento dell’epoca dialettica, segnata dal contrasto ideologico tra comunismo e liberalismo, tra capitalismo e collettivismo, ha aperto la strada a un’unica ideologia che è sopravvissuta e che è all’origine di tutte le altre: il nazionalismo, la madre di tutte le ideologie, che ha conquistato spazio un po’ ovunque perché è la più facile da imporre, basata com’è su dati di realtà inconfutabili: una terra, una lingua, una religione, un interesse nazionale. Ma il nazionalpopulismo è la cattiva risposta alla crisi della democrazia liberale, è una forma illusoria, una specie di compenso emotivo e aggressivo di chi non sa vivere questa fase nuova e diversa della storia dell’umanità. In questo senso c’è, come sottolinea Carrón, una crisi antropologica: non saper affrontare le sfide del presente e del futuro, rifugiandosi nel passato.

Carrón parla di una “riduzione dello sguardo che impedisce di cogliere l’umano”. Una posizione che si nota, soprattutto, su un tema: i migranti, visti come numeri e non come persone. Come si può affrontare con uno sguardo adeguato il fenomeno dell’immigrazione?

L’immigrazione è un fenomeno non accidentale, le ondate migratorie sono una parte costitutiva della storia dell’umanità, da sempre. Bisogna trovare i modi di affrontarla, bisogna cercare di prevenire i guai peggiori. Oggi tutti si riempiono la bocca ricordando che tra 50 anni l’Africa avrà 2 miliardi di abitanti, che non sarà in grado di sfamarli e ciò darà vita a vere migrazioni bibliche,  paventando il timore dell’invasione nera. Tutto ciò, però, ignora i progressi che ci sono stati, anche molto significativi, in quel continente. E nel caso proprio dell’Africa occorre che questi progressi vengano consolidati, quelle esperienze positive e costruttive vengano estese, che si possa procedere, insieme, a garantire maggiori diritti umani fondamentali. Non c’è dubbio che noi occidentali abbiamo un debito immenso nei confronti dell’Africa, dovuto alla faccia cattiva della nostra civilizzazione, come è stato lo schiavismo, un abominio durato secoli. Un debito che va saldato: non è un senso di colpa, ma una riparazione.

Si era già cominciato ad affrontare questo tema negli anni Ottanta con le politiche di cooperazione rivolte proprio verso l’Africa.

Sì, ci fu uno sforzo, economico e di sostegno tecnico-professionale, imponente, anche se non sempre andato a buon fine, perché abbiamo visto vari casi di corruzione, di appropriazioni indebite da parte delle élites militari africane, di Stati corrotti, Ma poi la Ue, con l’allargamento a Est, che ha cambiato completamente la natura dell’Europa, ha dirottato quelle risorse per far recuperare ai Paesi dell’ex cortina di ferro, dopo 70 anni di comunismo, la loro arretratezza. E questo ha prodotto delle conseguenze. 

“La paura non si vince con la violenza, la chiusura, i muri, tutte espressioni di una sconfitta. La paura è sconfitta solo da una presenza”. Come giudica queste parole di Carrón?

Trovo molto suggestiva l’evocazione di una presenza, che poi è la presenza del divino, della figura di Cristo, di un Dio che si fa uomo e patisce le sofferenze dell’uomo fino all’estremo sacrificio del Calvario e della morte. E’ un messaggio che richiede un fondamento comune, metapolitico, di fede, per essere condiviso. E mi domando: solo questa fede può affrontare e vincere la paura? Credo di no, credo ci siano altre possibilità e risorse. Mi piace molto, infatti, l’immagine che Carrón usa del bambino, che avendo paura del buio, è confortato dalla presenza della madre. Ecco, qual è la madre che ci può confortare di fronte alla paura, dell’invasione, del futuro? Dovrebbe essere la responsabilità collettiva.

Subito dopo l’immagine del bambino e della madre, Carrón aggiunge: “Ciascuno dovrà scoprire nella sua vita quali presenze rispondono alle sue paure”. Per lei, quali sono?

Ho fiducia nel senso di ragionevolezza e nel dialogo come confronto libero di opinioni. Restando alla metafora del buio, se il bambino ha paura gli si può sempre dire: accendiamo la luce, e la luce è l’immagine della comprensione, del sapere. E poi bisogna insegnare anche il coraggio. Quest’anno vorrei dedicarmi a un tema, con vari interlocutori e compagni di viaggio, a cui pensavo già da molto tempo e che per secoli proprio nella nostra Europa, fin dagli antichi Greci, ci ha accompagnato: l’educazione dell’anima, intesa non in senso metafisico, ma come sensibilità, mentalità, gusto, preferenze o, appunto, coraggio, che è il coraggio delle scelte, il coraggio di aprirsi agli altri, il coraggio di mettersi in discussione.

(Marco Biscella)