Ci sono degli interrogativi dietro l’immenso incendio che ha danneggiato seriamente la cattedrale di Notre-Dame. Quella macchina di pronto intervento, capace di operare in modo esemplare nell’attentato alla rete metropolitana regionale il 25 luglio del 1985, riuscendo a contenere al minimo il numero dei morti conseguenti a una bomba depositata tra i passeggeri di uno dei vagoni ed esplosa, a venti metri sottoterra in un’ora di punta (le 18!), questa volta non è riuscita a correre in tempo e a compiere il miracolo. Nel caso dell’incendio nella cattedrale di Notre Dame – obiettivo di altissimo valore simbolico – non è facile scartare l’ipotesi di un incendio di natura dolosa. Del resto, i recenti attentati ai luoghi di culto cristiano in Francia autorizzano legittimamente una tale ipotesi, anche se ci auguriamo che venga smentita dalle indagini in corso.

Tuttavia, paradossalmente, non è questa la parte essenziale di quanto è accaduto. Dietro ogni evento di questa portata, ciò che è rivelatore, ciò che dice la verità non è tanto l’evento in sé, quanto l’emozione che suscita. Quell’emozione, quel dolore svelano la verità, come un lampo che improvvisamente, nella notte, rende visibile l’intera valle, rischiarando ciò che, fino a un momento prima, restava nella penombra della vita privata di ciascuno.

Si resta allora sorpresi dinanzi ai parigini che riempiono i quais intorno a Notre-Dame, tra i quali, nel silenzio spettrale sul Pont Saint Michel, si distinguono i cattolici che cantano il “Je vous salue Marie”, quasi ininterrottamente. Si è spesso parlato delle cattedrali del Duecento come di “pietre vive”, ieri sera ne abbiamo avuto tutti la prova che quelle pietre erano vive sul serio. Si è rimasti in silenzio, e qualcuno ha pregato e cantato attorno alla Nostra Signora ferita, esattamente come si sarebbe pregato attorno a una persona cara mentre medici e infermieri stanno cercando di salvarla dalla morte. Non è forse un lapsus rivelatore che il giornale Le Figaro abbia parlato dell’arrivo del presidente Macron al “capezzale” (chevet) di Notre-Dame, proprio come se si trattasse di una persona viva?

Qualcuno ha paragonato la caduta della guglia di Viollet le Duc a quella delle Twin Towers dell’11 settembre. La meccanica è la stessa, ma la differenza è capitale. A New York si sono pianti 3mila morti innocenti, a Parigi si è pianto su un’opera fatta di legno e di pietre. Ed è da qui che bisogna partire. Che senso ha piangere su delle travi che si possono sostituire, dei bassorilievi che si possono riprodurre di nuovo? Non c’è forse già il precedente della Fenice di Venezia, che, fedele al suo nome, ci accoglie ancora con tutto il suo splendore, dopo l’incendio devastante del 29 gennaio del 1996. E Notre-Dame stessa non è stata forse già devastata dalla furia iconoclasta della Rivoluzione del 1789, proprio come la Sainte Chapelle, con le reliquie disperse da una folla forsennata e iconoclasta?

Perché piangere e pregare, se non perché la verità di Notre-Dame – quella che le fotografie non dicono e i turisti non sanno – è quella di non essere solamente un’opera d’arte, ma di costituire anche e soprattutto un’opera amata; amata perché testimone e memoria di un amore infinito che lega noi credenti a quelle guglie e a quelle statue, perché sono parti di noi e del nostro cuore.

E anche per chi credente non è, Notre-Dame è comunque parte importante di quel giardino che ci è stato consegnato dai nostri avi e che abbiamo il dovere di curare perché contiene ciò che noi siamo nel più profondo di noi stessi. Perché noi, prima ancora di essere dei prodotti del presente (e quindi della società dei consumi e dell’euforia permanente che la caratterizza) siamo degli eredi di un immenso e meraviglioso patrimonio del passato, al quale il presente arriva come un intruso invadente, sempre accattivante ma anche sempre meno desiderato.

La società secolarizzata è anche una società dove la memoria di un evento che ci ha colpito il cuore, silenziosamente e tenacemente, scava i suoi luoghi di riferimento, i suoi repères. Notre-Dame è uno di questi. Se c’è qualcosa che regge l’urto del tempo – riprendendo le note di Julián Carrón – questa è anche la testimonianza di un’attesa permanente, provocata da una promessa troppo grande e troppo bella per essere dimenticata e per non essere costantemente riportata alla luce, rammentata e rinarrata. Perché senza quella promessa non riusciremmo a reggere l’urto della vita che lascia che tutto si dissolva; perché senza quell’amore infinito saremmo travolti dal banale quotidiano di una “vita insulsa”, con la sua insopportabile e banale miseria, la sua stolta inconsistenza, la sua insopportabile futilità che ci riempie sempre meno, lasciandoci in fondo al cuore un senso di insoddisfazione permanente.

Notre-Dame è il nostro cuore, il cuore della nostra storia; e quei canti, quella folla autoconvocatasi ha attestato e manifestato come sia tutto vero. La cattedrale di Notre-Dame è la rappresentazione della nostra cattedrale interiore.

Cara e amata Notre-Dame, ti recupereremo perché ti apparteniamo. Perché le mani di quei muratori, di quei tagliatori di pietre e di quegli ebanisti erano quelle dei padri dei nostri padri e noi non smetteremo mai di ringraziarli. In quelle mani scorreva il nostro stesso desiderio e la nostra stessa attesa: la parte migliore di noi.