Arriva puntuale come i cachi sugli alberi. L’autunno è la stagione dei cachi e delle polemiche sul presepio: “Quest’anno è meglio non costruirlo: troppo alto il rischio d’istigare il senso d’offesa per chi non crede”. “Che in ogni scuola ci sia il presepe – ribattono altri –, è in gioco la nostra identità”. Collego la stagione dei cachi alle primarie per il presepio: per la prossima legge elettorale, all’ordine del giorno propongo il destino del giorno otto di dicembre. Potrebbe essere la data più favorevole per le primarie, per decidere se costruire il presepe o meno. Quest’anno, nel frattempo, la sfida si è fatta più sottile: “Siate onesti, non fate il presepe. E’ ipocrisia farlo e tacere sulla mattanza del Mediterraneo!” Cioè: evitiamo di sfoggiar l’’ipocrisia, perché festeggiamo un Dio-profugo e, in contemporanea, mettiamo il silenziatore alle urla del popolo che, dalle terre confinanti all’Egitto, sale al Cielo. Fuggendo dalle bave inferocite di Erode il Grande (idiota).
Guardo i cachi sull’albero. “Hai fatto l’albero quest’anno?” ha chiesto Lucia a sua sorella? La sorella: “No, prima ci vuole il fiore!” L’avrei sepolta di abbracci: l’albero non nasce albero, è l’esplosione lenta di un seme, dalla cui morte nasce un fiore. Penso al fiore, osservo i cachi, e decido: quest’anno farò il presepio più bello di sempre. “Sei il solito bastian contrario. Butti sempre in vacca tutto!” — già avverto i commenti. Assolutamente no, stavolta: è proprio perché la discussione fila liscia che sento la necessità di costruire il presepio.
E’ sempre capitato così nella mia vita da quattro-soldi: quando tutto sembra finito, il Signore appare in qualche maniera nuova e intima. Quest’anno, poi, il Signore mi è apparso in borghese, nella fattispecie del mio sacrestano di galera: “Dai, facciamolo una settimana prima quest’anno” mi ha imposto ieri. Ho accettato, per le medesime ragioni per le quali altri invitano a non farlo: perché il grido dei sofferenti – profughi, galeotti, disoccupati, richiedenti asilo, ammalati, clochard – quest’anno non mi ha arrecato quella compassione che invece s’illumina nel presepio: “Non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7).
Ha senso, dunque, celebrare il Natale se poi non è Natale tutti i giorni? Lucifero, pirla della miseria, da mesi mi seduce: “Non lo puoi fare, saresti ipocrita: non vivi quello che metti in scena. Non appartieni al Dio che omaggi”. Stavolta ha ragione: c’è una discrepanza tra lo struggimento e la passione che ci metto nel preparare la grotta per Gesù e il menefreghismo col quale leggo di gommoni affondati, aziende chiuse, galere rose dall’umidità. Per non parlare dei dibattiti sull’ecologia, l’economia solidale, l’erosione dei ghiacciai: tutti temi che, l’ammetto, scanso. “Non farlo, dunque, il presepio. Saresti un ipocrita!”
Invece lo faccio, perché sono un peccatore più che un ipocrita. Saulo/Paolo, ghigliottinaio, scrisse parole fiammanti: “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7,18-19). Io vedo quello che il presepio mi dice: è affascinante, lo vorrei vivere. Poi, però, compio ciò che nel presepio non c’è: “Sono uno sventurato!” (7,24). Cristo, con me, usa una dose di ironia letale, incontenibile: mi fa creare con le mie mani un sogno di umanità, me lo fa gustare, per poi farmi percepire che quel sogno io non riesco a viverlo. Gli piace vedermi frustrato? Macché! Vorrebbe, a tutti i costi, che accettassi di mettermi in cooperativa con lui. Ogni anno ci prova, nella stagione dei cachi.
In materia di fede sono un disastro: la mia fede è somma di risposte senza chiamata. Sento, dunque, l’obbligo di costruire il presepe. Per dover passarci davanti più giorni possibile e notare – microfoni spenti, senza comizi, omelie – la discrepanza tra ciò che professo e ciò che vivo. Non farlo, quest’anno, sarebbe per me la lusinga maiuscola: mi eviterebbe la rogna del confronto col Vangelo. E ammettere d’aver speso mille euro per un Gesù scolpito a Ortisei rifiutando di comprare il giornale, dicendo: “Sempre i soliti morti”. Che presepio-rompicapo.