“Gli angeli cantano nei cieli la tua Resurrezione, Cristo Salvatore. Concedi anche a noi sulla terra di glorificarti con purità di cuore”. Nell’oscurità della notte pasquale, con poche fiammelle accese ad arginare il buio, le parole di questo antichissimo canto della liturgia bizantina sono immediatamente evidenti a tutti: la Resurrezione è un fatto presente, una realtà evidente e riconosciuta da quelle creature – gli angeli – per le quali ragione e amore sono indissolubilmente uniti nel determinare la libertà al Bene.



Ma non è così per noi: il nostro cuore, il nostro giudizio, la nostra ragione e il nostro affetto non sono puri, hanno bisogno di essere purificati, Qualcuno deve donare questa purità. E, mentre prosegue il canto, dalla candela del celebrante, che porta l’icona della Resurrezione e il Vangelo, si accendono via via le luci di tutti i fedeli: un simbolo evidente di quella “catena ininterrotta” che dal mattino della Pasqua ha raggiunto i primi testimoni, che a loro volta hanno poi trasmesso la testimonianza più con la loro vita, che con i loro discorsi.



Ma non si arriva alla purità di cuore senza riconoscere cosa prima lo inquinava: e infatti il sacerdote bussa per tre volte alle porte chiuse della chiesa con la Croce, mentre si canta innumerevoli volte il tropario di Pasqua: “Cristo è risorto dai morti, con la sua morte calpestando la morte e donando la vita a quanti sono nei sepolcri”. La Pasqua di Cristo ci raggiunge mentre siamo nei sepolcri, ecco la verità che ci viene proclamata! Come si vede nell’icona della Pasqua, Cristo deve venire negli inferi, scardinarne le porte sigillate, prenderci per il braccio e tirarci su con Sé, verso la luce e la vita: altrimenti noi, da soli, non saremmo mai capaci di uscire dall’inferno della nostra impurità di cuore: quell’ottusità di giudizio e di affetto per cui continuiamo a coltivare la duplice illusione di essere vivi, e insieme di potercela tranquillamente cavare da soli. Eppure ce ne accorgiamo, quando Qualcuno viene a scoperchiare le nostre tombe, facendo entrare un raggio di luce da cui non ci si può facilmente nascondere.



Chiunque celebri consapevolmente la Pasqua può riconoscere nella sua vita questo momento di verità con se stesso e con Dio. Sa dare un volto e una data al momento in cui ha accettato di essere illuminato (non a caso, nella Chiesa antica, i neobattezzati nella notte di Pasqua erano chiamati “gli illuminati”), e non dubita della Resurrezione di Cristo, perché ne ha visto in sé la portata.

Ma cosa permette a questa certezza di restare, di resistere? Ce lo dice la splendida antifona di Pasqua del rito romano: “Sono risorto e sono sempre con te”. La Resurrezione di Cristo è l’inizio di un “per te”, di un “con te” che mai viene ritirato. E non è un caso che la Chiesa lo ripeta proprio all’inizio della Messa del giorno di Pasqua: perché senza questa personalizzazione, senza questa certezza che Cristo stesso mi ha raggiunto, quel giorno e attraverso quelle persone, io non posso fare Pasqua. Che significa poi “farmi Pasqua”, ben sapendo che anch’io entro nella catena ininterrotta dei testimoni. Per realissima e purissima Grazia.