Tante volte ho pensato ad Asia Bibi, in questi lunghissimi anni della sua detenzione. L’ho vista, con una stretta al cuore, chiusa in una cella buia, umida, china a terra, nella sporcizia, nella solitudine, nel terrore, col ricordo delle violenze subite, la paura per i suoi cari. E sentire dalle poche voci filtrate di amici coraggiosi che pregava, che riusciva a non odiare, mi pareva così eroico da risultare impossibile.



L’ho vista stanca, invecchiata, abbandonata, sporca, ma così limpida e certa da accrescere la stretta al cuore come un rimorso, l’ombra di una rassegnazione colpevole. Abbiamo raccolto firme, abbiamo scritto qualche mail. Ma a chi importava qualcosa di una delle tante donne schiacciate nel corpo e nell’anima da una religione di Stato che opprime la libertà e la dignità.



Asia Bibi Non è una statuetta che anima il #MeToo globale. Non è una giornalista, una di noi. Non è una paladina di battaglie femministe. E’ solo una povera cristiana. Qualcuno l’ha anche detto: non facciamone un caso, evitiamo intemperanze, come se alla ferocia non si potesse almeno rispondere con parole forti. Non bisogna alzare troppo la voce, non è prudente. Non dobbiamo immischiarci nelle leggi di un paese straniero, che ha la sua cultura, da rispettare. Alla faccia delle nostre svariate corti dei dritti umani, del nostro orgoglio di farli rispettare nel mondo, armi in pugno, quando conviene.



C’è un prudenza della diplomazia che porta solo rimandi e ritardi, e assomiglia alla complicità. Sono passati dieci anni, tombali, per quella giovane donna colpevole di attingere l’acqua al pozzo con mani impure, accusate di aver offeso il Profeta, chissà come, con quali prove. Come se Cristo non fosse offeso ogni attimo, dalla rabbia di figli che lo odiano e perseguitano il suo popolo.

Sono passati anni in cui ci sono stati scontri e assassini, in nome di Asia Bibi. Oggi, che una corte non si sa quanto spontaneamente ne ha decretato la liberazione, si temono nuove violenze, altri martiri. Asia resta una figura scomoda, che può senza colpa innescare micce pericolose, e rischia di essere maledetta anche da chi vorrebbe difenderla. Era meglio dimenticarla in quella cella da topi, sgranare una preghiera ogni tanto e sospirare il suo nome. Ma Asia è stata ed è per noi cristiani un segno di contraddizione, una pietra d’inciampo. Ci obbliga ad andare alle ragioni della nostra fede, a chiederci quanto siamo disposti a perdere, per Gesù Cristo. Non sto parlando della vita, non ci è ancora chiesta. E neppure di qualche giro d’affari, di qualche apparentemente pacifico dialogo interreligioso. Parlo della nostra coscienza. Quella sì. La stiamo perdendo.