“Chiedo al governo italiano e faccio un appello: aiutateci a fare uscire dal Pakistan me e la mia famiglia perché siamo in pericolo”: è l’appello, accorato, lanciato in un videomessaggio da Ashiq Masih, il marito di Asia Bibi, la donna cristiana condannata otto anni fa all’impiccagione per blasfemia e a fine ottobre assolta dalla Corte Suprema, ma che non può essere liberata e lasciare il Paese a causa delle violente proteste dei fondamentalisti islamici. Che cosa deve fare l’Italia? Che cosa rischiano Asia Bibi e la sua famiglia?



Lo abbiamo chiesto a Mario Mauro, presidente di Popolari per l’Italia, che segue la vicenda dal 2010, quando era rappresentante dell’Osce contro le discriminazioni religiose. “In questa vicenda ho perso uno degli amici più cari, Shahbaz Bhatti, così come il governatore musulmano Salman Taseer: entrambi avevano preso le difese di Asia Bibi e sono stati trucidati dai fondamentalisti pakistani”. E Mauro subito aggiunge: “Da più parti, anche da nostri livelli istituzionali significativi, sia la presidenza della Repubblica che il ministero degli Esteri sono stati sollecitati, e le sollecitazioni sono arrivate dal Pakistan, perché si inserissero nel tentativo di portare Asia Bibi in Italia proprio per quello che la società civile italiana ha massicciamente fatto in questi anni. Basti ricordare, ultimo ma non ultimo, l’evento del Colosseo tinto di rosso a cui hanno partecipato i familiari di Asia Bibi. Il problema è che a tutt’oggi queste risposte non sono arrivate”.



La situazione è delicata…

Sì, è di estrema delicatezza. Quando nel 2008 c’è stato l’attentato di Mumbai, compiuto da terroristi islamisti, anni dopo sono stati trovati i responsabili, ma soprattutto alcuni di loro sono stati individuati in Italia e alcuni arrestati sul territorio italiano. Non mi imbarazza la volontà di riflessione e discrezione nel trattare questa vicenda da parte delle nostre autorità, magari per il timore delle ricadute che potrebbero esserci anche in un Paese come il nostro accettando il rischio di ospitare Asia Bibi, l’avvocato e la sua famiglia.

Tuttavia, qual è il punto?



Il punto è che il trattamento riservato, nel suo passaggio italiano, allo stesso avvocato di Asia Bibi fa capire come forse funzionari troppo zelanti siano incapaci di interpretare quello che il sentimento che la nostra nazione, ancorché cristiana, intende tributare a questa donna, alla luce della plateale ingiustizia perpetrata per il solo fatto che Asia Bibi testimoni una fede diversa da quella della maggioranza dei pakistani. Proprio oggi che si parla tanto di Terza Repubblica, questa parola ha senso non solo se si esplicita nello spoil system di una classe politica e di governo, ma se ribadisce o rinnova le cose in cui crede. In questo momento chiudere le nostre porte, non farci in quattro per una situazione del genere vuol dire ridurre l’esperienza di buon governo della nostra Italia a una pura questione condominiale, senza avere la capacità né la visione di mettere al centro ciò per cui val la pena vivere.

Il marito di Asia Bibi ha chiesto drammaticamente aiuto all’Italia: “Fateci uscire dal Pakistan, siamo in pericolo”. Che cosa può fare l’Italia?

L’Italia può mettere a disposizione la struttura della propria diplomazia, l’autorevolezza del proprio governo e la sensibilità dei propri diplomatici presenti anche sul posto, che già in passato hanno avuto occasione di avere ripetuti contatti con i protagonisti del caso, per offrire alle autorità pakistane una possibilità di uscire dall’impasse, anche attraverso la proposta di strumenti non convenzionali.

Per esempio?

Offrendo, per esempio, la cittadinanza italiana ad Asia Bibi e alla sua famiglia. Potrebbe essere un approccio che non espone — nella polemica tra il debole governo pakistano e la forte e rumorosa minoranza islamista di quel Paese — i pakistani ad altre ritorsioni.

Per quale motivo?

Per la semplice ragione che diventa a quel punto una questione di relazioni tra due Stati sovrani. L’Italia, quindi, può fare molto, anche spendere le proprie relazioni internazionali.

Quali, in particolare?

Penso al rapporto privilegiato che in questo momento il governo ha con l’amministrazione americana, come mostra la notizia dell’autorizzazione da parte Usa a proseguire i nostri rapporti commerciali con l’Iran. Proprio questo fa capire che ciò che si può fare per avere un maggior vantaggio nei commerci forse si può anche fare per salvare una vita umana.

Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha dichiarato che “l’Italia si sta muovendo con discrezione, assieme ad altri Paesi europei, per evitare problemi in loco ad Asia Bibi e alla sua famiglia”. Gli estremisti islamici in Pakistan sono così potenti?

Quando parliamo dei fondamentalisti pakistani non parliamo di gruppi di terroristi, ma di partiti assolutamente presenti nelle istituzioni, fortemente radicati nel tessuto sociale pakistano che hanno quindi una concreta capacità di influenzare l’orientamento di masse rilevanti e di spargere odio finalizzato alla conquista del potere politico. A pagare questa situazione oggi è Asia Bibi, ma in passato hanno pagato anche capi di Stato e di governo. Gli stessi militari, che sono l’altro grande interlocutore delle vicende pakistane, per governare, alla fine, hanno sempre scelto di scendere a patti con queste formazioni estremiste. Questo ci fa capire qual è la situazione interna al Pakistan.

Lo stesso Salvini ha però sottolineato che le “relazioni commerciali con il Pakistan sono molto buone”. I margini di manovra possono indurre a un certo ottimismo?

Non sottovaluterei — lo ripeto — la pressione esercitata dai gruppi islamisti, perché sono gruppi che si sono resi protagonisti anche in passato di azioni eclatanti. E soprattutto perché la ricaduta di ciò che possono fare è destinata a segnare, nella tragedia, le condizioni di vita della minoranza cristiana in quel Paese. Dal mio punto di vista rimango convinto che portare Asia Bibi, la sua famiglia e coloro che sono stati coinvolti dal caso fuori dal Paese sia in questo momento il male minore.

Perché?

Fintantoché queste persone resteranno là, come pure dovrebbe essere giusto che sia, il pericolo sarà non solo per loro, ma anche per tutti gli altri che condividono lo stesso credo. E’ un aspetto di cui proprio la comunità internazionale, in particolare i Paesi europei, deve farsi carico: avere la capacità di comprendere quanto lì sta accadendo ed evitare che questo oggetto del contendere diventi quel caso controverso che fa vivere ai pakistani da molto tempo un clima di aggressività e violenza funzionale ai progetti di potere dei partiti islamisti.

Molti leader politici italiani, di vari schieramenti, hanno chiesto di non lasciar cadere l’accorato appello del marito di Asia Bibi. Quanto contano, in queste vicende che hanno al centro la tutela di persone ingiustamente perseguitate, l’attenzione e la pressione internazionale?

Sono fondamentali. Noi non dobbiamo dimenticare che abbiamo alle spalle un’esperienza straordinaria al riguardo. Se i Solzenicyn, i Siniavskij, i Sacharov e i Walesa sono riusciti a sopravvivere e hanno restituito alla storia una nuova opportunità, è perché la comunità internazionale in quegli anni aveva la capacità di mobilitarsi, affermando un ideale più grande di quelli che potevano essere gli interessi di governo e di commercio degli Stati. Benvenuta, allora, la mobilitazione di tutti questi leader, meglio ancora se hanno idee differenti, perché questo fa capire l’importanza di ciò che c’è in gioco.

L’avvocato di Asia Bibi, il musulmano Saiful Malook, dopo le prime proteste contro la decisione della Corte Suprema ha dovuto riparare all’estero, temendo per la sua incolumità. Che cosa rischiano ora Asia Bibi e la sua famiglia? Ed è possibile che la sentenza venga riesaminata con un esito diverso?

In realtà, c’è stata l’espressione di questa disponibilità da parte di alcune delle forze che compongono il governo pakistano. E’ un fatto di una gravità inaudita, perché stiamo parlando di un ricorso di fronte alla Corte Suprema. Come se una partita fosse già finita, finiti anche i tempi supplementari e ci fossero stati anche i calci di rigore, arrivato sul campo sotto la pressione di una folla minacciosa, un nuovo arbitro dicesse: sapete che c’è di nuovo? Ricominciamo da capo. E’ evidente che c’è una forzatura che non si basa su uno stato di diritto. Anche per questo è necessario che non solo i Paesi membri della comunità internazionale, ma anche chi ha storicamente forti relazioni con il Pakistan, come gli Stati Uniti, si impegnino per un reale rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto. Diversamente, sarà molto difficile che quel governo avrà la forza per far rispettare l’evidenza del diritto.

Alcuni leader islamici pakistani sono intervenuti a difesa della sentenza e dell’innocenza di Asia Bibi. E’ un fatto che può aiutare a rasserenare il clima e a dare maggior forza al governo di Islamabad?

È senz’altro un fatto positivo. Ma va detto che ci troviamo di fronte a un’operazione molto politica.

In che senso?

I leader dei partiti islamisti, in particolare il Tlp che fomenta la folla perché l’odio la faccia da padrone, sono forze politiche che prendono a pretesto il nome di Dio per il proprio progetto di potere. Teniamo presente che la versione pakistana dell’islam è per certi versi ancora più estrema di quella wahabita, ed è così storicamente proprio per sottolineare la propria resistenza contro l’induismo, visto che il Pakistan è figlio della spaccatura e della tragedia indiana. Nonostante questo, non tutti i leader religiosi pakistani cadono in questa trappola. Ci sono persone più che consapevoli, nel mondo islamico pakistano, di quanto sia importante rendere possibile la convivenza civile anche a chi professa fedi diverse e che solo questo può garantire l’esistenza, lo sviluppo e l’armonia di una comunità nazionale.

Dunque la presa di posizione di quei leader a favore della sentenza dovrebbe essere enfatizzata dalla comunità internazionale.

Sì. E’ il momento di dare forza a questi protagonisti, chiamandoli a una ribalta nella quale possano assumersi maggiori responsabilità e rappresentare un punto di riferimento per il dialogo. Proprio la tragica morte di Bhatti fa capire che c’è sensibilità in modo costante, anche da parte dei governi che si sono succeduti, a rendere possibile in Pakistan un vero dialogo, ma è una sfida che si paga cara, perché il clima di violenza è continuamente ribadito dalle formazioni estremiste. E’ una battaglia da affrontare e da vincere, perché è una battaglia giusta.

L’avvocato di Asia Bibi ha anche detto che ci vuole del tempo per rilasciare un individuo recluso in carcere, però resta fiducioso sull’esito. Cosa potrà succedere adesso?

Se non fosse intervenuta questa fortissima pressione degli estremisti, molto probabilmente la tempistica burocratica del rilascio di Asia Bibi sarebbe stata il miglior viatico per stemperare il clima. Invece questo sostanziale cedimento operato da esponenti del governo, che si sono detti disponibili ad aspettare l’espletamento di un ricorso davanti alla Corte Suprema, rende tutto molto più complicato. In realtà, la sentenza entra nel merito con molta precisione e dice ciò che deve essere detto: nei processi subiti precedentemente da Asia Bibi è stato fatto strame proprio del diritto. Non si capisce come la Corte Suprema possa un domani contraddire ciò che ha scritto in modo mirabile. Anch’io sono fiducioso rispetto all’iter burocratico, perché sulla base di quella sentenza non può esserci altro che un rilascio di Asia Bibi. Il problema è un altro: un minuto dopo quella liberazione, che cosa succede?

Secondo lei?

Sarà proprio in quel minuto che si dovrà sentire la forza, la presenza, la vicinanza della comunità internazionale. Di più, dovrà essere concreta la possibilità che qualcuno possa subito offrire una soluzione.

(Marco Biscella)