Parliamoci chiaro: l’incontro che si terrà in questi giorni a Roma sulla protezione dei minori nella Chiesa, con la presenza diretta del Santo Padre e di numerosi testimoni, è uno spartiacque di questo pontificato. Francesco vi arriva alla fine del suo sesto anno da Papa, stretto tra chi vede in lui un apostata e chi lo vorrebbe più coraggioso, più rivoluzionario. Attorno a quest’incontro crescono nubi da più fronti: si moltiplicano le storie di abusi sui minori da parte di sacerdoti, denunce di molestie sessuali, torbide vicende di consacrati dalla doppia vita o con figli a carico, inquietanti silenzi da parte di Vescovi che vedono nell’insabbiare il tutto un modo per tutelare la Chiesa dai suoi ministri e dalle loro perversioni. E tutto contribuisce a creare nei fedeli e nella pubblica opinione un senso di sfiducia, di smarrimento, di delusione.



È ricomparsa perfino una vecchia storia, scoperta due anni fa dall’associazione dei figli di preti chiamata “coping”, secondo cui nella Chiesa ci sarebbero precise norme interne per chi diventa padre: il portavoce vaticano ha confermato l’esistenza di questo documento riservato e tutti coloro che sono nella Chiesa ne conoscono effettivamente orientamenti e direzioni. Ciò che domina questo scritto è l’invito alla responsabilità, ad essere padri sul serio, a non nascondersi nel silenzio o dietro la protezione sociale del ruolo. Ma non basta. Perché è chiaro ormai che non ci si trova dinnanzi ad alcune mele marce da gestire, bensì ad un problema che travolge la credibilità della Chiesa e la forza della Sua testimonianza.



Così ciò che è realmente decisivo è il sostantivo che si accosta alla parola “abusi”: ci sono quelli che li legano al dilagare nel clero di eresie e pratiche omosessuali, quelli che li presentano come diretta conseguenza del celibato sacerdotale, quelli che ne evidenziano il nesso con la ricerca del potere o dell’esperienza affettiva.

Ma l’abuso, ogni abuso dentro e fuori la Chiesa, ha a che fare col dolore. Una Chiesa che voglia davvero essere profetica deve avere il coraggio di smascherare il dolore dei carnefici, di chi ha pensato di annegare il proprio dolore con il sesso e la violenza, con il cercare prede attraverso cui saziare la propria fame. C’è una domanda di Bene nell’uomo che sembra essere tradita dalla realtà: pare che tutto ci volti le spalle e che ciò che rimane non sia altro che un radicale rifiuto di noi stessi. Sembra che la vita ci respinga, che la felicità ci eviti, che le scelte fatte ci abbiano semplicemente condannato al fallimento. Si spalanca per tanti una vita da non amati, una vita in cui il rapporto col sesso smette di essere un’appassionata ricerca di sé e di ciò che si ama, e diventa un “bene di rifugio”, un luogo dove rubare un po’ del nostro valore e dove esprimere la rabbia per ciò che poteva essere, per ciò che poteva accadere. Una vita non amata, risentita, arrabbiata, frustrata: una vita piena di dolore, dove solo altro dolore sembra attutire un po’ il grido – l’urlo – verso il Cielo.



Certamente la Chiesa deve schierarsi senza timore dalla parte delle vittime; deve condannare i violenti, i codardi, gli orchi, le bestie; deve cacciarli dal sacerdozio, consegnarli alla giustizia civile. Ma, soprattutto, la Chiesa deve parlare al loro dolore. Non quando è diventato orrore e superbia, ma quando esso affiora in seminario, nei gruppi giovanili, negli irrigidimenti ideologici o religiosi: è allora che la Chiesa deve avere il coraggio di rivolgere la parola al carnefice, di entrare in contatto con quel dolore e portare un annuncio di misericordia.

Quanto male potrebbe evitare un abbraccio, un bene o un gesto di vera umanità! Stiamo qui a processare papi, cardinali, vescovi e non ci rendiamo conto che ciò che è decisivo è l’Amore, la strada che ciascuno deve fare per arrivare al rapporto con il Mistero della vita. Quegli uomini, furenti animali o ignavi omertosi che siano, hanno interrotto il proprio cammino pensando che l’abito talare li avrebbe protetti, che il potere li avesse resi onnipotenti. Ma si sbagliavano. E adesso il Papa li chiama alla sbarra. Sperando che le loro storie smuovano la Chiesa a prendersi cura del dolore dei propri seminaristi, della loro identità ferite. Perché non c’è niente di più pericoloso di un uomo che ha smesso di crescere. E che riempie il vuoto del proprio cuore con la violenza della propria anima.