Ieri mattina un gruppo di sopravvissuti stazionava tra via della Conciliazione e piazza Pio XII, cercando avidamente obiettivi e microfoni in cui riversare la rabbia trattenuta per anni, la frustrazione e il disgusto per gli abusi subiti da bambini, gridando il bisogno di attenzione ancora implacato. A poche centinaia di metri, in linea d’aria, nella sala Regia del Palazzo Apostolico, Papa Francesco teneva il discorso che formalmente avrebbe dovuto chiudere la quattro giorni di lavori sulla tutela dei minori tenutasi in Vaticano.
Una contemporaneità inevitabile e provvidenziale, nonostante le asprezze di chi non riesce a perdonare, insaziabile nella ricerca di giustizia, inevitabilmente sproporzionata rispetto alla violenza subita. Da una parte la rabbia, dall’altra l’umiliazione. E un uomo, successore di Pietro, che nonostante il bisogno fisico di riparare colpe ed errori di altri, cerca la faticosa via della condivisione, facendo maturare la Chiesa nella dinamica della sinodalità e della collegialità.
Francesco è consapevole che dietro il dolore delle vittime e l’indignazione dei fedeli c’è l’immensità di Dio. Che le coperture, i silenzi, le omissioni, oltre naturalmente ai crimini, sono manifestazioni del male. Sfacciate, aggressive e distruttive. Azioni di satana. Lo ha detto senza mezze misure nel suo discorso equilibrato e denso, documentato e propositivo. Concreto come quello di un padre che fa i conti con le lacerazioni in famiglia.
Sa, il Papa, che la ferocia del dissenso, la collera delle vittime e dei giusti, non è che “il riflesso dell’ira di Dio, tradito e schiaffeggiato” dalle azioni di uomini anestetizzati dall’ipocrisia e dal potere.
Eppure ha trovato il coraggio di fornire statistiche, di evitare gli estremi del giustizialismo e dell’autodifesa vigliacca, per guardare avanti, ad una Chiesa finalmente purificata, capace di una “cocciuta” speranza. Aveva chiesto alla vigilia del vertice di non alzare troppo l’asticella, di non caricare di aspettative un evento che non avrebbe mai potuto cancellare gli anni di infedeltà. Ma senza dubbio l’esame di coscienza impresso alla Chiesa universale ha avuto i suoi effetti. Concretissimi. Risultati ottenuti portando tutto il corpo ecclesiale ad una comune consapevolezza, senza gesti d’imperio.
Avrebbe potuto modificare procedure e leggi canoniche, da pontefice, accontentando chi da tempo chiede reali cambiamenti sul tema abusi, costringendo i difensori ad oltranza dell’istituzione ad accettare norme cogenti. Ma ha preferito la strada più difficile: una presa in carico collegiale del tema, dove tutti potessero maturare la consapevolezza del problema pedofilia, la mostruosità di quanto si è verificato in seminari, oratori, parrocchie, sulla carne viva di piccoli innocenti. Oggi non c’è Chiesa locale che non valuti l’urgenza della questione, che non comprenda il dovere della responsabilità, del rendere conto e della trasparenza nella crisi pedofilia. Una scelta rischiosa, quella del Pontefice, che ha fatto fare un salto di qualità alla Chiesa cattolica, nel segno della sinodalità.
Poi c’è anche la concretezza di atti e protocolli. Presto, ha annunciato padre Federico Lombardi al termine del vertice, un nuovo motu proprio di Francesco sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili per rafforzare prevenzione e contrasto agli abusi nella Curia romana e nello Stato della Città del Vaticano, a seguire una nuova legge dello Stato della Città del Vaticano e le linee guida per il vicariato. In breve tempo la congregazione della Dottrina della fede pubblicherà un vademecum per aiutare i vescovi a comprendere doveri e compiti nei casi di abusi e infine la creazione di task forces per aiutare le conferenze episcopali e le diocesi ad affrontare il problema pedofilia dove mancano competenze e risorse. Fatti che seguono l’appello ad una lotta a tutto campo contro gli abusi sessuali. Crimini da eliminare dalla faccia della terra. Nell’umiliazione la Chiesa ha ritrovato la sua autorità etica e morale. Di più, la sua “significazione”.