Nei giorni emiratini di Papa Francesco si è abusato dell’aggettivo “storico”. L’hanno usato i telecronisti e giornalisti arabi ben prima che l’Airbus 330 dell’Alitalia si staccasse dalla pista di Fiumicino; è rimbalzato su schermi e siti nei giorni passati dal Pontefice nella penisola arabica; l’hanno infilato, e abbondantemente, principi e imam negli incontri ad Abu Dhabi; e alla fine, con una certa enfasi, l’ha ribadito anche il direttore ad interim della sala stampa vaticana: “E’ vero, a volte lo usiamo troppo di frequente, ma in questo viaggio ci sta bene”. Insomma, quando ci vuole ci vuole.
A parte l’elenco delle prime volte di Francesco che si allunga di un altro tassello (la prima volta di un pontefice nella penisola arabica, la prima volta tra i grattacieli di Abu Dhabi, la prima volta di un documento firmato congiuntamente dalla Santa Sede e dall’università di Al-Azhar eccetera) è evidente che qualcosa di straordinario è avvenuto nel ventisettesimo viaggio apostolico di Bergoglio. E’ riuscito dove molti avevano fallito.
Lunedì nel Founder’s Memorial un altissimo rappresentante dell’islam sunnita, anzi la somma autorità, Al Tayeb, ha condannato senza mezzi termini e senza ambiguità, senza se e senza ma si direbbe, il fondamentalismo radicale e il terrorismo. E lo ha fatto in un Paese che sfiora l’Arabia Saudita e guarda lo Yemen insanguinato, osservato speciale da tutto il mondo arabo e musulmano.
Poi, nell’abituale conferenza stampa ad alta quota, sull’aereo che lo riportava a Roma, Francesco ha ceduto, anche lui, alla tentazione di usare il termine abusato, mitigandolo con l’osservazione che ogni viaggio in fondo è “storico”, e che ogni storia merita di essere raccontata. Anche quelle quotidiane, che conservano una “dignità nascosta”. Una delicatezza che non scalfisce la sensazione che qualcosa di grande si è consumato nella visita negli Emirati.
Non è stata solo l’occasione per vedere un Paese moderno, aperto, accogliente, pulito e attento al proprio futuro, come ha definito il Papa gli EAU, in cui non si sa perché e come i fiori fioriscono in pieno deserto (interrogativo da candido pontefice), ma è anche stata la possibilità di incontrare senza filtri, in una delle moschee più belle del mondo, il Consiglio dei saggi, imam arrivati da tutto il mondo per dialogare e confrontarsi con il successore di Pietro.
Ed ecco la carta vincente di Francesco, quella che gli ha permesso di andare oltre diffidenze e chiusure del passato, di rinnovare un abbraccio, con Al Tayeb, che ha del miracoloso a una manciata di anni da Ratisbona. L’amicizia fraterna, i legami umani e personali che è capace di creare e mantenere. Non solo: il documento sulla fraternità, firmato a quattro mani con il grande Imam di Al-Azhar, e costruito a forze di preghiere dall’una e dall’altra parte, ha superato la prova della cronaca, gli interminabili e dolorosi resoconti di guerre, violenze, persecuzioni, attentati che hanno costellato in Medio Oriente ed Estremo Oriente, Europa e America la gestazione dell’accordo.
Un Papa che, nonostante i mugugni di certo cattolicesimo venato da estremismi, non ha ceduto di un passo sulla propria identità, pur riuscendo a costruire nuovi ponti. A chi già obietta che è stato partorito un documento troppo spinto sul piano del confronto, ha replicato pronto che non si “schioda di un millimetro dal Vaticano II” e fa sapere di essersi garantito, prima di firmare, anche il placet del teologo domenicano della casa pontificia, di quelli che vanno al sodo e non si mettono a dar la caccia alle streghe.
Nella sua chiacchierata con la stampa ha anche ammesso che non tutto è stato semplice e che è presumibile che da parte islamica le resistenze saranno molte. Ma il processo è iniziato e non si torna indietro. Il dialogo continua, si cammina insieme. Un augurio e una promessa. Parola di Francesco.