Una nota della Cei, la Conferenza episcopale italiana, stigmatizza l’ultimo intervento del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha illustrato le modalità della cosiddetta fase 2, i primi passi per la riapertura delle attività economiche e l’allentamento della sospensione delle libertà individuali. La nota nasce dal disappunto verso il governo per aver completamente ignorato la questione della riapertura delle chiese alla celebrazione comunitaria degli eventi religiosi: “I vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto” si legge e “la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale”. Parole forti, che Cesare Mirabelli, ex giudice costituzionale e professore ordinario di diritto ecclesiastico all’Università di Roma Tor Vergata e all’Università Europea di Roma, e di diritto costituzionale nella Pontificia Università Lateranense, commenta così: “C’è un problema di bilanciamento tra diritti fondamentali. Da una parte, la libertà di culto, di circolazione, di riunione che sono libertà costituzionali che vanno bilanciate con il diritto alla salute, il dovere di non infettare e tutelare la diffusione dell’epidemia. Il bilanciamento deve essere ragionevole. C’è da domandarsi se questo, e quanto, viene applicato in modo ragionevole”.



Già nella prima fase dell’emergenza coronavirus molti cattolici, davanti alla prospettiva di chiudere le chiese al culto, si sono lamentati che in chiesa ci vanno pochissime persone per cui non sarebbe esistito un pericolo di contagio. In realtà, le chiese alla domenica sono affollate, soprattutto di anziani, che sono le prime vittime del contagio. Non pensa che il governo abbia qualche ragione nel chiedere di tenerle ancora chiuse?



Se ci poniamo dal punto di vista della libertà, non è il numero che conta. Se si tocca la libertà di culto anche di una sola persona, la garanzia della sua libertà dovrebbe essere assicurata.

Però il pericolo di contagio, anche se si è aperta la fase 2, è tutt’altro che finito.

Certo. Volevo indicare un punto di partenza che riguarda la tutela dei diritti fondamentali. Altro è il problema del bilanciamento tra diritti fondamentali. La libertà di culto, di circolazione, di riunione sono libertà costituzionali che vanno bilanciate con il diritto alla salute, con il dovere di non infettare e di non aumentare la diffusione dell’epidemia. Occorre ci sia un bilanciamento fra questi diritti. La libertà di circolazione e di riunione, comprese quelle religiose, possono essere temporaneamente limitate, ma con una fonte legislativa. Occorre ci sia un limite proporzionato rispetto al sacrificio. Il bilanciamento è questo, deve essere ragionevole. Allora c’è da domandarsi se tutto questo è ragionevole e quanto.



Se lo chiedono in molti. Nel caso in questione, ritiene che la libertà di culto sia stata violata?

Chiariamo che l’intervento del governo sul caso in questione non è, come si usa dire, “in odio alla Chiesa”. C’è una ragione di fondo, la tutela della salute. C’è da chiedersi se la misura è proporzionata rispetto all’obiettivo. Lo era certamente in zone particolarmente colpite dall’epidemia, in questi casi era giustificato. Mi chiedo tuttavia se sia giustificata la possibilità di celebrare funerali con un numero limitato di persone, come è stato annunciato, e altre celebrazioni no. Non spetta allo Stato decidere quali celebrazioni fare, ma quali modalità di difesa della salute adottare. Ad esempio, stabilendo il numero delle persone in rapporto alla dimensione del luogo e l’uso di mascherine e guanti.

La Chiesa, dicono i vescovi, si muove nel rispetto delle istituzioni, ma rivendica la propria autonomia. C’è il rischio di violazione del Concordato tra Stato e Chiesa?

Ci sono due principi. Uno, stabilito anche dalla Costituzione, prevede la separazione degli ordini: che lo Stato, cioè, faccia lo Stato e la Chiesa faccia la Chiesa. Ordini e competenze sono distinte: la sanità è questione dello Stato, il culto è questione della Chiesa. In questo momento è richiesta una collaborazione fra i due ordini. Lo Stato deve prendersi cura del bene della salute e può porre dei limiti alla libertà generale.

Se però lo Stato permette la riapertura dei mercati o di certi attività, perché non dà questa possibilità anche alle chiese?

Come dicevo, bisogna studiare una collaborazione. Evitare assembramenti, brutta parola di stile poliziesco, cioè affollamenti non “rispettosi” delle dimensioni dell’edificio, è misura adeguata. Abbiamo visto come anche il Papa celebri senza concorso di popolo. Mi chiedo, però, se non sia ragionevole distinguere non solo le dimensioni, ma anche le aree.

In che senso?

Ci sono zone del paese dove non c’è contagio, quindi stabilire le condizioni nelle quali possa essere consentita la presenza di persone in riunioni religiose. Questa è la stagione delle cresime, delle prime comunioni e dei matrimoni; eravamo abituati ad assistervi con grande concorso di persone, erano una festa. Ma c’è distinzione tra un funerale, funzione che viene permessa con un numero limitato di persone, quindici al massimo, e un matrimonio, da celebrarsi invece solo con gli sposi, i testimoni e i genitori? Allo Stato non interessa quale rito viene celebrato, interessa conoscere il numero di partecipanti che possa determinare un rischio per la diffusione dell’epidemia.

(Paolo Vites)

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