Il DPCM Conte e la chiusura di cinema e teatri, provvedimento che si abbatte su una categoria che già faticava a rialzarsi
Sono da una parte onorato e dall’altra lievemente intimorito: non è affatto facile parlare, in questo momento in cui c’è moltissima confusione, della serrata di tutti i luoghi in cui si fa spettacolo operata dall’ultimo Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Peraltro, pur occupandomi di musica e spettacolo da tantissimi anni, sono un pesce talmente piccolo da non fare notizia, o come si dice oggi clickbaiting.
Non voglio peraltro – e poi la finisco di lamentarmi – affrontare la questione da un punto di vista politico, non ne avrei lo spessore né le competenze, ma solo esprimere qualche osservazione rispetto ad un momento davvero duro per tutto il comparto culturale e degli spettacoli dal vivo.
La prima cosa che mi è saltata all’occhio è l’estrema sintesi con la quale si è liquidata la questione, cito testualmente: “sono sospesi gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto”. Una frasetta striminzita, riportata dopo aver parlato delle sale Bingo (certamente più redditizie per lo stato), senza nessun distinguo e nessuna possibilità di appello. Non che ci si potesse aspettare molto di più, dopo l’altra genialata di qualche tempo fa sui 200 posti di capienza, decisi come tetto massimo senza distinzione di grandezza della sala o proporzioni. La cosa che fa più pensare è l’asciuttezza con cui si determina la chiusura di qualunque attività dal vivo, come a testimoniare la totale indifferenza, il poterne fare a meno ed in qualche modo, come già segnalato da più parti, il disinteresse per una categoria in ginocchio.
Non dimentichiamo mai (lo riprenderemo alla fine), che la situazione è molto difficile, ma questa chiusura arriva dopo un periodo in cui tutti hanno lavorato, spendendo risorse per migliorie, adeguamenti, riduzioni del numero di partecipanti. Tutti sforzi che ora si ha l’impressione, anzi direi la certezza, di aver fatto inutilmente.
Un altro aspetto che rimane misterioso è il perché l’attività di teatri e concerti non sia stata equiparata a quella dei musei, permettendo ai lavoratori dello spettacolo una pur ridotta e contingentata attività. Un divieto così netto taglia davvero le gambe.
Certamente l’obiettivo andrebbe allargato ed il problema affrontato in una prospettiva più ampia. Il settore musicale, specialmente quello dei concerti dal vivo, ma anche la discografia, non erano certamente in un periodo florido, presentando anche alcuni paradossi già prima dell’abbattersi della falce della pandemia e poi quella di quest’ultimo DPCM. Tre brevi annotazioni. Uno, l’alto costo dei biglietti dei concerti e l’insano meccanismo della vendita diversi mesi prima dell’evento stavano già tartassando il mondo degli appassionati. Due, il tanto invocato passaggio dall’analogico al digitale – già avvenuto da anni e responsabile della crisi profonda della discografia tradizionale – è in qualche modo in parte responsabile della disaffezione verso la musica suonata dal vivo, anche in piccoli locali e location alternative. Tre, nonostante si cerchi di fare gruppo, non c’è mai stato un reale corporativismo fra i lavoratori dello spettacolo, che oggettivamente non sono un’unica grande famiglia. Tutto questo necessiterebbe di uno spazio più ampio e i temi di discussione sarebbero indubbiamente molti, ma non credo sia questa la sede.
Forse allora il contributo più onesto e sincero che possa essere dato da un minuscolo esponente – come me – in un mondo di colossi è l’esperienza personale. Con una disposizione di chiusura così tassativa – e le successive dichiarazioni che il Decreto non è in discussione, e le conseguenti proteste che stanno maturando nelle piazze, non solo per il comparto culturale – oggettivamente per chi lavora in questo campo c’è stato un blackout. In una stanza in cui, per la pandemia, c’era già appena un filo di luce, ora è buio pesto e non è semplice individuare una via d’uscita a breve. Il tentativo che, insieme ad altri colleghi e collaboratori, si stava facendo per adeguare i nostri spettacoli alle nuove, seppur mobili, normative si è andato ad impastare contro il muro rigido di un decreto senza possibilità di scelta. Dall’altra parte, il mondo dello spettacolo prenda spunto da questa crisi per interrogarsi su se stesso, sulle proprie forme, su quanto ancora sia propagatore di bellezza e di una comunicazione artistica alta e quanto invece legato solo al mercato. Altrimenti se ne uscirà peggio di prima.
Mi si permettano in chiusura gli ultimi due pensieri assolutamente personali. Innanzitutto riprendo quanto detto sopra: penso che non si debba mai dimenticare che siamo di fronte ad una emergenza senza precedenti. Per questo credo che occorra fare i conti con alcuni dolorosi sacrifici, al fine di contenere più possibile l’espandersi della pandemia. Infine l’ultima osservazione: la domanda più urgente che io faccio a me stesso è se ho ancora qualcosa da dire. E provare a trovare il modo di dirlo. Perché comunque un cuore che sanguina non può essere bloccato da una cinica e burocratica frasetta scritta in un decreto da qualche grigio travet.