C’è un incubo che aleggia sull’Italia ed è la fermata delle attività industriali sommata al pannicello caldo del decreto cura Italia. Chi conosce un po’ di storia oggi è preoccupatissimo. La gestione di un passaggio di questo tipo rischia di far precipitare l’economia italiana in un baratro da cui non uscirà e soprattutto di dare vita a un’emergenza anche alimentare senza precedenti. E pensare che qualcuno in Italia, anche di importante per il ruolo che ricopre, come il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, si vantava pure del fatto che il governo non avesse ceduto alle pressioni di Confindustria (ma dei sindacati). Peccato invece che all’estero se ne siano accorti eccome: ieri il principale quotidiano spagnolo, in un Paese investito dal fenomeno coronavirus, apriva parlando del collasso economico italiano; il New York Times commentava sbigottito i rischi economici e il costo enorme che l’Italia sta per intraprendere. La questione non è chiara, ma è chiara benissimo agli industriali con Boccia che parlava di 100 miliardi di costo al mese. La sottovalutazione degli effetti del provvedimento del ministro dello Sviluppo economico è preoccupante. Una volta chiuse le imprese nessun Governo si prenderebbe mai la responsabilità di riaprirle per poi vedere aumentare di nuove i contagiati. Nei fatti la chiusura di due settimane diventerebbe la chiusura di molti mesi e le conseguenze sarebbero tragiche.



Le questioni sono due. La prima è questa: le imprese oggi non lottano per i guadagni, ma per la sopravvivenza. Il calo del Pil americano e globale del secondo trimestre sarà, secondo tutti i principali istituti di ricerca, il peggiore di sempre. Peggiore perfino di quelli che si sono registrati durante la crisi del ’29 e durante la Seconda guerra mondiale. Questa è la marea che sta montando nell’economia. Chiudere un’impresa e farlo solo in Italia significa condannare quell’impresa alla morte. Semplicemente non aprirà mai più perché il mercato globale sarà difficilissimo e la disoccupazione salirà paurosamente anche senza chiusura. Chi perde il posto di lavoro farà una fatica immane a ritrovarlo. Immaginate con la moria di migliaia di imprese.



Chiudere per “due settimane” è un mito che si può propinare solo a chi non abbia idea di cosa sia il privato e solo a chi non si rende conto che nessun primo ministro si prenderà mai la responsabilità di riaprirle prima che la pandemia sia finita. A oggi si stima che non saremo fuori prima di giugno. Tre mesi con l’impresa chiusa in un mondo in cui tutti gli altri vanno avanti e riescono a produrre in sicurezza.

Ma il problema non è solo questo. Tutto è interconnesso, tutto si tiene. Quello che vi porta la confezione sullo scaffale è un meccanismo complesso in cui i soggetti che concorrono all’impresa sono tantissimi. Discriminare tra le attività “essenziali” e le altre è nei fatti pressoché impossibile per un numero spropositato di imprese. Credete che chi produce la confezione di plastica o l’etichetta lo faccia solo per il cibo? E allora cosa si pretende che si tenga aperto un impianto gigantesco per una produzione minima con dei costi colossali? Tra due settimane quell’impresa sarà morta schiacciata da costi insostenibili soprattutto in un Paese con le rigidità fiscali e burocratiche italiane. Ed è questo il punto. Significa che tra due settimane finiranno gli alimenti sugli scaffali e dovremo ricorrere alle derrate alimentari dell’Onu per non morire di inedia.



L’operazione di “chiudere tutto” nella sostanza produrrà questo effetto: l’operazione è riuscita perfettamente, ma il paziente è morto. Il coronavirus finirà, è questione di settimane, ma tutti noi vorremmo riavere una vita, aver la possibilità di lavorare e di continuare a pagare per medici e attrezzature. La sfida è produrre in sicurezza e non chiudere aprendo un frangente che rischia di far collassare il Paese con un botto economico e sociale senza precedenti. O meglio proprio con precedenti che la storia ci propone gestiti da dilettanti con effetti rovinosi su distribuzione e approvvigionamenti. Rovinosi in modo indicibile.

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