Non se l’è inventata oggi Luciano Garibaldi la teoria che lega Winston Churchill alla morte di Mussolini eppure nel libro “La pista inglese” forse lo spiega meglio di tutti: lo storico e saggista, più volte intervenuto anche per il nostro quotidiano, in una bella intervista con Giovanni Terzi su “Libero” tratta uno dei punti più “misteriosi” della nascita della Repubblica italiana. Per Garibaldi fu proprio il premier inglese Winston Churchill ad ordinare la fucilazione di Benito Mussolini e dell’amante Claretta Petacci: il motivo, manco a dirlo, il voler coprire il piano che esisteva tra lo stesso Churchill e il Duce per fermare Stalin usando il Führer Adolf Hitler. «Sulla morte del Duce e della sua amante iniziai a indagare nel 1994 con una serie di servizi giornalistici per il quotidiano La Notte e il settimanale Noi della Mondadori, che ebbero risonanza internazionale. Poco tempo dopo, il grande storico Renzo De Felice dichiarò, nel libro-intervista scritto con Pasquale Chessa, che la “vulgata” era falsa e che il capo del fascismo era stato ucciso per ordine di Churchill», racconta Garibaldi ai colleghi di “Libero”. Secondo lo studio di anni su documenti, storiografie dimenticate e archivi “segreti”, la verità che emergerebbe è ben diversa da quella “vulgata storica” che sussiste ancora oggi: «La sua morte non era stata programmata da nessuno. Non era prevista, né voluta. Addirittura il suo nome non era compreso nella lista dei prigionieri consegnata dal comandante partigiano “Pedro” (Pier Luigi Bellini delle Stelle) al “colonnello Valerio” (Walter Audisio). Ma il “colonnello Valerio”, nello spuntare i nomi della lista, disse, anzi esclamò, come testimoniato da tutti i presenti: «Mussolini: a morte! Clara Petacci: a morte!». Perché? Perché, al pari del Duce, l’aveva trovata cadavere quella mattina, ma soprattutto perché “doveva” assumersi l’ onere di una uccisione del cui carico i suoi veri artefici – i servizi britannici – preferivano liberarsi».



LA “PISTA INGLESE”, CHURCHILL E L’ANTI-STALIN

Niente partigiani o americani, dietro tutto ci fu l’Inghilterra che con Mussolini intratteneva da tempo un rapporto epistolare anch’esso oggetto dei misteri storici più discussi e studiati negli ultimi 70 anni: «Il timore che i due, interrogati dai giornalisti americani (gli unici veramente liberi e più interessati agli “scoop” che agli ordini dall’alto), rivelassero i contatti esistiti fino all’ ultimo tra Mussolini e Churchill e aventi lo scopo di spingere Hitler a cessare la resistenza in Occidente per volgersi unicamente contro l’ Armata Rossa e impedire così a Stalin di impossessarsi di una buona metà dell’ Europa. È facilissimo immaginare che cosa avrebbe potuto accadere se Stalin fosse venuto a conoscenza di quelle manovre sotterranee di Churchill», racconta Garibaldi citando le sue prove portate a corredo di quella “pista inglese”, «testimonianze, per decenni in pratica ignorate, sui contatti segreti tra Mussolini e gli inglesi. Testimonianze che portano le firme di Dino Campini, segretario del ministro dell’ Educazione Nazionale Carlo Alberto Biggini, di Sergio Nesi, ufficiale della Decima Mas, di Pietro Carradori, attendente di Mussolini, di Filippo Anfuso, ambasciatore della Repubblica Sociale Italiana a Berlino, di Ermanno Amicucci, direttore del Corriere della Sera, di Alfredo Cucco, sottosegretario alla Cultura Popolare, di Ruggero Bonomi, sottosegretario all’ Aeronautica, di Edmondo Cione, fondatore del Raggruppamento Repubblicano Socialista, di Nino D’ Aroma, direttore dell’ Istituto Luce, di Georg Zachariae, medico tedesco del Duce, di Drew Pearson, giornalista americano, di Umberto Alberici, notaio in Milano». Altro elemento di forte interesse storico riguarda il famoso “oro di Dongo”, confiscato dai partigiani dopo la morte di Mussolini: secondo Luciano Garibaldi, che cita diverse altre fonti, non fu il tesoro di Stato della Repubblica Sociale di Salò ad essere trasportato da Mussolini nella fuga verso la Svizzera. «“L’oro di Dongo”, rinvenuto dai partigiani nella “colonna Mussolini” e incamerato dal PCI, non era il “tesoro di Stato” della RSI, ma era composto dai valori confiscati alle famiglie degli ebrei arrestati e rinchiusi nei campi in seguito alle leggi razziali»; per Garibaldi, quei valori Mussolini li voleva consegnare agli americani dopo la resa in Valtellina affinché fossero restituiti ai superstiti, «a dimostrazione del fatto che quelle confische non erano state fatte per arricchire la RSI a danno dei perseguitati, ma erano state un pesante obbligo derivante dall’ alleanza con il Terzo Reich. Come tutti sanno, invece, quelle ricchezze finirono nelle casse del PCI».

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