Le ore di cassa integrazione a maggio sono salite del 19,8% rispetto ad aprile. Il rallentamento economico è frutto di diversi fattori. I flussi delle merci e le catene di fornitura funzionano male e molte imprese non riescono a lavorare nonostante siano piene di ordini. Le tensioni geopolitiche che hanno coinvolto il dollaro e i sistemi di pagamento stanno facendo finire una certa globalizzazione. Le sanzioni contro la Russia sono l’esempio più evidente, ma anche la Cina ha meno interesse ad accumulare surplus commerciali in dollari e euro. L’inflazione è un secondo fattore perché incide sul potere d’acquisto delle famiglie che non possono più comprare le stesse quantità di prima. L’incremento dei tassi di interesse e i cali dei listini sono un terzo elemento che frena la crescita.
Questi fenomeni non sono un incidente di percorso destinato a esaurirsi nei prossimi mesi. Non è una questione di pessimismo, ma la premessa per una politica industriale che tenga conto della realtà. L’incremento dei prezzi di molte materie prime ha già prodotto blocchi alle esportazioni che tolgono beni dai mercati internazionali. Anche ammettendo una riduzione dei prezzi gli Stati aspetterebbero diversi mesi o trimestri prima di tornare indietro e togliere i blocchi. Le tensioni geopolitiche con la Russia non sembrano destinate a finire rapidamente. Lo stesso vale per la Cina e non solo per la questione “Taiwan“.
Dopo il sequestro delle riserve in valuta estera russa, giusto o sbagliato che sia, molti Paesi si porranno il problema delle implicazioni politiche di detenere dollari. Per una lunga fase i Paesi emergenti hanno avuto interesse a generare surplus commerciali strutturali per accumulare valuta “forte”, tendenzialmente dollari e poi euro. Il contraltare era un flusso di beni economici verso i Paesi sviluppati e catene di fornitura lunghe e oliate. Questo mondo è finito e probabilmente non tornerà più perché le relazioni internazionali rimangono conflittuali e, anzi, si assiste a un’escalation.
In questo scenario, è notizia di due giorni fa, Rete ferroviaria italiana decide di aumentare le risorse, aggiungendo oltre tre miliardi di euro per un totale di quindici, per poter procedere alle gare su opere di alta velocità che in molti casi non vedranno la luce per i prossimi cinque anni. Il budget aumenta perché il costo delle materie prime sale. È il doppio di quanto spende Eni in due anni a livello globale.
La previsione non è complicata: tra dodici mesi bisognerà aggiustare ulteriormente. Si spinge la crescita facendo infrastrutture se vale l’assunto che le risorse dedicate non compromettono l’esistenza del sistema industriale. Non è chiaro a chi servirebbero le nuove ferrovie se nel frattempo muore il sistema produttivo italiano. Lo Stato italiano dovrebbe incentivare in tutti i modi il rimpatrio di quelle produzioni che prima erano disponibili e all’estero e che oggi invece non arrivano più. Costruire capacità produttiva è lungo e faticoso. Le nuove fabbriche non spuntano per magia.
La politica industriale di un Paese che vuole preservare la propria economia oggi dovrebbe essere completamente al servizio dell’industria soprattutto per la sua linfa vitale: energia economica, programmabile e sicura. Spendere per nuove ferrovie che saranno pronte tra cinque anni in una fase in cui la cassa integrazione aumenta del 20% al mese potrebbe avere senso solo se si pensasse che questa crisi è passeggera e che alla fine torneremo ad avere lo stesso scenario di prima. Ma non è questo il caso. Le sanzioni contro la Russia non scomparirebbero nemmeno se la guerra finisse domani. Quello che si è visto sul dollaro è un dato che ha cambiato la percezione di molti Paesi. Il Governo italiano e l’Europa vanno avanti con il pilota automatico innestato dopo il Covid quando la percezione di tutti era che si trattasse solo di una pausa forzata mentre i prezzi dell’energia toccavano minimi storici.
È meno impegnativo far finta di non essere davanti a una curva della storia e dell’economia e tenere innestato il pilota automatico dei fondi europei. È poco impegnativo, e non bisogna spiegare la verità, ma in questa fase è una garanzia di fallimento.
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