Un’altra cronaca degli orrori. Due neonati sono stati uccisi e sepolti nel giardino di casa, in una villetta di Traversetolo nel Parmense. Il caso è stato reso noto ieri attraverso un crescendo di particolari incredibili, evidenziati dagli inquirenti al lavoro già dallo scorso 9 agosto, quando nel giardino fu ritrovato il corpicino di un neonato, probabilmente grazie al fiuto di un cane.



Da quella prima macabra scoperta si è giunti alla ricostruzione della notizia che ieri è stata divulgata: si sa, con certezza di prove, che il neonato rinvenuto sottoterra è figlio della ragazza 22enne che abita nella villetta con la sua famiglia e che ha tenuto segreta l’intera vicenda. I familiari, compreso il padre del neonato ucciso e sepolto, sono rimasti totalmente all’oscuro della gravidanza e del parto, affrontato dalla ragazza senza l’aiuto di nessuno, senza lasciare traccia dell’orrenda decisione messa in atto prima di partire per un viaggio all’estero pianificato da tempo.



Ora sulla ragazza, accusata di omicidio premeditato e occultamento di cadavere, pende anche l’ombra di un doppio infanticidio. Sono infatti stati ritrovati in un secondo momento, sempre nel giardino di casa, i resti di uno scheletro di un altro neonato che, dagli accertamenti svolti, risalgono a più di un anno fa. Gli inquirenti ipotizzano che la stessa ragazza possa aver ucciso e nascosto anche il primo bambino.

Una vicenda intricata, inquietante, che lascia trasparire – mettendo in fila le sequenze di un delitto raccapricciante, consumato in assoluta autonomia – un’indifferenza glaciale verso un essere umano considerato quasi un’appendice di cui liberarsi furtivamente, alla svelta, senza l’ombra di uno scrupolo, senza un fremito di repulsione, persino senza un sentimento di desolazione o di improvvisa tristezza che qualcuno dei familiari o degli amici avrebbe potuto leggerle sul volto. Invece niente, non le era successo niente, non aveva deciso nulla di inquietante o di tragico.



In questo scavo immaginario nei sentimenti altrui, in questo tentativo improbabile di immedesimazione in pensieri e gesti che si collegano a un agire tragico, di violenza, di morte, si arriva a presumere soltanto uno stato di incoscienza, di inconsapevolezza, di alienazione dalla realtà. Secondo una percezione che oggi informa la mentalità prevalente, un essere umano, specialmente quando è un piccolo essere, concepito come qualcosa che non ha nessuna alterità e nessuna esistenza propria, nessuna dignità, è da considerarsi come un grumo di materia di cui la donna può disporre decidendo di disfarsene senza alcuna inquietudine.

Lo slogan enfatizzato da anni “Il corpo è mio e lo gestisco io” non porta forse una donna a ritenere che l’essere concepito è di suo dominio fino a poterne decidere la soppressione in nome della propria libertà?

È difficile pensare che la ragazza 22enne nel tempo della gravidanza, come nel travaglio del parto, fosse consapevole di dare alla luce un essere umano, ancor più, di dare alla luce il proprio figlio, “suo” eppure altro da sé stessa, destinato alla vita e non alla morte. Questa consapevolezza avrebbe suscitato un travaglio non solo attinente al suo corpo, ma anche al suo agire, al suo approccio a quel piccolo essere umano destinato a vivere. Ma il nostro mondo, sempre più intriso di messaggi che riducono l’essere umano a oggetto, strumento destinato a mercificazione, non si accorge neppure più delle contraddizioni e della menzogna che sottostà alle sue derive individualiste commisurate a una libertà che diventa troppo spesso arbitrio e sopraffazione. L’accanimento ideologico di chi ultimamente pretende che l’aborto venga riconosciuto come “diritto costituzionale”, quindi come principio e fondamento di un “bene” per l’umanità, evidenzia una folle aberrazione che sta penetrando nelle coscienze fino a contaminare nel profondo le scelte più intime, la concezione degli stessi rapporti umani. La “banalità del male”, evocata da Hannah Arendt riguardo all’inconcepibile orrore della Shoah, è entrata nelle nostre vite.

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