La Cina non ha mentito sul Covid solo all’inizio della pandemia. Ad esempio, lo ha fatto anche sul numero di decessi, che non viene citato nell’ultimo rapporto demografico dell’Ufficio di statistica che ha censito la popolazione nel 2020. Evidentemente un confronto con gli anni precedenti avrebbe evidenziato il numero reale di morti per Covid. Ma questa è solo l’ultima delle cose nascoste dalla Cina, per questo il giornale Mediapart ha stilato una “cronologia delle menzogne” che è stata pubblicata sul Fatto Quotidiano. Si comincia dal primo caso di coronavirus, diagnosticato in Cina il 31 dicembre 2019. In realtà una fonte sostiene che è stata segnalata la presenza di Sars-CoV-2 a Wuhan dal settembre 2019. Comunque, la dottoressa che diffuse la notizia ai colleghi del primo caso a dicembre, Ai Fen, finì sotto inchiesta insieme a sette medici. A tal proposito, Li Wenliang fu arrestato per aver accennato su WeChat ad una grave patologia polmonare che stava circolando a Wuhan, ma morì sette giorni dopo per complicanze da Covid.



COVID CINA, I PRIMI CASI E L’ISPEZIONE

Il sito Caixin ha rivelato, invece, che diversi laboratori di analisi in Cina ebbero già a dicembre campioni di malati a Wuhan, ma l’agenzia provinciale della salute dell’Hubei avrebbe dato l’ordine di discuterli. Invece il South China Morning Post va più indietro: un caso di coronavirus sarebbe stato registrato il 17 novembre 2019 su un abitante della provincia dell’Hubei. C’è poi la questione relativa al genoma del virus, perché le informazioni relative agli studi condotti sono archiviate nelle banche dati dell’Istituto di Virologia di Wuhan ma bloccate dall’autunno del 2019. Da uno studio del collettivo di medici DRASTIC è emerso invece che nel giugno 2019 c’è stata un’ispezione all’università di Wuhan da parte di una commissione speciale del ministero di Scienze e Tecnologie da cui emersero gravi lacune a livello di sicurezza. Mancavano parti divisorie tra le zone di sperimentazione, le attrezzature per gli studenti erano inadeguate e così pure le installazioni all’Istituto di Virologia di Wuhan per la ricerca sui coronavirus dei pipistrelli.



LE OMBRE SULL’ORIGINE DEL COVID

Sull’origine le ombre si fanno ancora più dense. I ricercatori dell’Università di agricoltura della Cina del sud nel febbraio 2020 assicurarono di aver trovato nella sequenza genomica del virus dei pangolini il 99% di elementi in comune con Sars-CoV-2, ma la tesi è stata accantonata perché non vi sono elementi per convalidarla. In quel periodo Bo-tao Xiao e Lei Xiao, docenti all’Università tecnologica della Cina del sud, suggerirono, senza però fornire prove, la teoria della “fuga” dal laboratorio a causa di un incidente. Le autorità li misero subito a tacere. Mesi dopo la Cina sostenne che il virus sarebbe stato importato dall’estero tramite alimenti surgelati. Nel novembre 2020, invece, i responsabili dell’Istituto di Virologia di Wuhan sulla rivista Nature spiegarono di aver raccolto nello Yunnan nove coronavirus le cui sequenze hanno legami con Sars-CoV-2, ma stando al collettivo DRASTIC almeno un altro virus sarebbe stato stoccato. Da Wuhan hanno replicato spiegando che alcuni campioni usati per le ricerche dal 2016 al 2020 non sono più disponibili, quindi le autorità cinesi non hanno mai chiarito il numero e la natura dei coronavirus prelevati sui pipistrelli nelle miniere dello Yunnan e studiate fino al dicembre 2019 a Wuhan.

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