La Cina rallenta. I segnali al riguardo sono inequivocabili e ormai cresce ogni giorno il numero di chi si chiede se questo rallentamento causerà la fine di quella che fino a poco tempo fa sembrava una crescita inarrestabile. Sono molti gli osservatori che ritengono che la crescita cinese sia avvenuta a un ritmo insostenibile e che lo “sviluppo armonico” teorizzato dal governo di Pechino poggiava su una base molto fragile, come dimostrerebbe il debito colossale che ha superato il 300% del Pil.



Il rallentamento delle esportazioni, dovuto alla congiuntura internazionale, si aggiunge alle criticità strutturali di un sistema finanziario che ha sostenuto i consumi di una classe media desiderosa di raggiungere i livelli di benessere delle società occidentali e a farne le spese sono le piccole banche commerciali della sterminata provincia cinese.



A rendere più complessa la realtà del sistema finanziario cinese è la scarsa opacità, per usare un eufemismo, dello shadow banking e le difficoltà delle banche virtuali, fattori che connessi alle difficoltà delle banche commerciali, potrebbero produrre una clamorosa crisi di liquidità che avrebbe conseguenze difficilmente prevedibili.

La prima reazione del governo di Pechino è stata quella di nazionalizzare cinque istituti in difficoltà, ma nel prossimo futuro la strategia adottata sarà di segno opposto, ovvero una stretta al credito nel nome della stabilità finanziaria orientata al contenimento del debito.



In definitiva, la forte esposizione bancaria che ha sostenuto la spettacolare crescita del Dragone asiatico sembra aver raggiunto il limite della sua espansione: in modo non dissimile da quanto accaduto prima della crisi del 2007-2008 le banche non riescono più a stimolare il credito totale interno. E in molti si chiedono quale sia stato il segreto di una spettacolare crescita economica che per quasi quarant’anni non ha conosciuto frenate.

La risposta va cercata in un tasso di investimento che si è avvicinato al 45% del Pil. Un dato che non ha eguali in altri economie nazionali. Una quantità colossale di investimenti di cui è difficile quantificare la qualità e l’impatto sull’economia reale.

Per molti osservatori si tratta di un modello di sviluppo “dopato”, finalizzato al raggiungimento di un potere economico da giocare sull’arena della competizione globale, e quindi da tradurre in potere politico con cui controbilanciare l’egemonia americana. In definitiva, la contrazione delle esportazioni e la crisi del sistema finanziario sono due le facce della medaglia dello sviluppo cinese e a ben vedere l’eccesso di liquidità, un sistema bancario non efficiente e un debito pubblico colossale rendono l’economia cinese molto simile a quella americana prima della crisi del 2007-2008.

Se a questo scenario aggiungiamo la realtà di un mercato immobiliare fatto di intere città fantasma e immensi centri commerciali vuoti, le similitudini diventano alquanto preoccupanti. Sembrerebbe che il governo cinese si sia accorto in tempo e che stia ripensando il proprio modello di sviluppo in modo da riorientare in senso domestico e sostenibile la propria economia industriale, provando a tornare a una crescita graduale e a una espansione naturale del proprio mercato, ma ciò che vale la pena di evidenziare in questa fase è il fatto che la prossima crisi non potrà essere affrontata servendosi della locomotiva dell’economa cinese e che – esattamente come è successo con gli Usa – i problemi della Cina sono ormai i problemi dell’economia mondiale.

Indipendentemente dagli esiti del rallentamento della sua economia, la Cina sembra più attrezzata ad affrontare questa fase di incertezza. Anche se con basi molto meno solide di quello che reputavano gli ottimisti, l’economia cinese sembra poter sostenere il cambiamento di paradigma in atto – del resto, la crescita del Pil è al momento rallentata soltanto dal +6,4% del primo trimestre al +6,2% del secondo –, piuttosto c’è da chiedersi come reagiranno le economie occidentali a un’economia cinese che probabilmente dimezzerà la propria crescita – è addirittura ipotizzabile nei prossimi 5-10 anni un calo dal 6% al 3% annuo – e che importerà di meno.

Inoltre rinunciare alla costante immissione di liquidità nel sistema – una sorta di Qe in salsa cinese – potrebbe rivelarsi nel lungo periodo una mossa vincente, dimostrando che la Cina ha la forza di abbandonare il continuo ricorso a stimoli, mentre le economia di Ue e Usa continuano a legare i loro destini a quelli delle loro banche centrali.

Non sembra un caso che recentemente il Comitato centrale per gli affari economici e finanziari cinese ha tenuto a ribadire che la tendenza di base di una crescita costante a lungo termine per l’economia non subirà variazioni e che gli Stati Uniti non sembrano intenzionati a sfruttare a proprio vantaggio questo momento di fragilità economica dell’avversario, spostando più avanti del 15 dicembre la decisione sui dazi. La trattativa continua, dilatando nel tempo la tensione accumulata negli ultimi mesi.

Ad ogni modo, in questa fase, la Cina sembra dover fronteggiare sfide che potrebbero comprometterne il futuro; a uno sguardo più attento, però, il paese asiatico sta affrontando una transizione verso un’economia meno dipendente dalla crescita e più incentrata sul raggiungimento di obiettivi strategici nei campi dell’innovazione tecnologica – che ha ricadute nei settori informatici e militari – e della stabilità interna.

Gli esiti recenti della rivolta di Hong Kong hanno notevolmente fatto vacillare il governo cinese e le prossime elezioni di Taiwan – partita strettamente connessa a quella che si gioca nel “porto profumato” – probabilmente segneranno un ulteriore allontanamento della “provincia ribelle” dalla madrepatria. Un brutto colpo per le aspirazioni cinesi, che probabilmente spingerà ulteriormente la Cina a volgere il suo sguardo al proprio interno e a un ripensamento globale della propria strategia.

L’aggressività mostrata su più tavoli dal governo cinese, in realtà, servirà a dissimulare una maggiore prudenza e cautela nelle grandi questioni geopolitiche e geofinanziare, atteggiamento confermato recentemente dai negoziatori cinesi durante la strana trade war in atto. E a ben pensarci, era quello che gli Usa auspicavano.