La Cina sta facendo passi enormi nella lotta al Covid, stando a quanto il regime lascia intendere. Almeno un milione di persone si sarebbe già vaccinata con uno dei due sieri sviluppati dall’azienda farmacologica di Stato, la Sinopharm. Il problema è che secondo molti esperti nessuno dei due vaccini ha dimostrato scientificamente alcuna efficacia. Non solo: le vaccinazioni in Cina non hanno mai seguito alcun protocollo di sperimentazione. Questo significa che, se il vaccino non funzionasse, le persone vaccinate nel prossimo futuro, pensando di essere immunizzate e quindi libere di riprendere una vita normale, finirebbero per diffondere un contagio peggiore del primo. Nonostante questo la Cina non si ferma: sono già stati siglati accordi per la vendita del siero in Indonesia e negli Emirati Arabi. Secondo Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, da noi intervistato, “il Partito comunista cinese non potrebbe mai permettersi il lusso di iniettare in un milione di persone un vaccino che non funziona, sarebbe un autogol clamoroso e destabilizzante. Il fatto poi che a sviluppare questi due sieri sia l’azienda farmaceutica di Stato e non una qualunque impresa privata, come ad esempio la Pfizer, dice dell’impegno preso”.



La Cina è partita con le vaccinazioni di massa, ma secondo gli esperti occidentali non esiste nessuna prova che questi vaccini siano efficaci. È una mossa puramente politica, quella di Pechino, per ottenere un successo di immagine internazionale?

Collochiamo sempre la Cina nella giusta prospettiva. Innanzitutto i contagi sono ormai quasi esclusivamente di importazione, grazie all’applicazione del paradigma delle tre T (testare, tracciare e trattare, ndr) come anche in Sud Corea e in parte in Giappone. Una capacità di tracciamento ben diversa da quella dell’Italia. E il valore dei contagiati oggi è pari allo zero. Questo successo dipende dai valori tipici delle società asiatiche influenzate ancor oggi dal confucianesimo, cioè l’identificazione dell’individuo con la società, la non-privacy, la fiducia totale nello Stato come fosse un padre.



Resta il fatto che non si hanno prove dell’efficacia di quel vaccino. Che ne pensa?

Sul tema del vaccino non posso fare una riflessione sotto il profilo sanitario, ma da conoscitore della realtà cinese. Non posso pensare che il Partito comunista cinese si possa permettere di varare una campagna di vaccinazione da un milione di persone senza essere certa che il vaccino funzioni.

Altrimenti?

Sarebbe un autogol clamoroso rispetto al processo di Xi di creare una equità del partito nei cinesi. Lanciare un vaccino con il rischio che non funzioni sarebbe un disastro per il partito. Dal punto di vista politico non possono permetterselo, hanno evidentemente prove che possa funzionare.



Del resto, come dicono diversi esperti, è tutto da vedere che funzionino anche gli annunciati candidati vaccini studiati in Occidente…

Da questo punto di vista, io sono molto perplesso sulle dichiarazioni continue che arrivano da cosiddetti esperti del settore sanitario e mi chiedo che cosa possa capire il cittadino. Quando c’è una crisi la prima cosa da fare è ridurre i soggetti che comunicano. Non so se si rendono conto delle loro affermazioni.

Ci può spiegare meglio il lato politico della vicenda e le sue implicazioni?

Se il progetto fallisse, sarebbe un vulnus enorme per il partito. Questi vaccini sono stati realizzati dall’azienda farmaceutica di Stato, non è l’amministratore delegato di Pfizer che un giorno annuncia un’efficacia al 93% e il giorno dopo al 95%. Certo, in questa operazione c’è un contenuto politico internazionale: dimostrare che la Cina è in grado di realizzare in modo autonomo un vaccino che richiede tecnologia avanzata, far vedere internamente che il partito è un buon padre di famiglia, dimostrare a livello internazionale che sono in grado di creare qualcosa di avanzato senza bisogno di aiuti esterni. Infine, sottoscrivendo accordi con paesi terzi, prima di darlo lo testano a casa propria.

C’è un aspetto economico. Alcuni colossi di Stato e una ventina di aziende private negli ultimi giorni hanno dichiarato fallimento. Forse il regime non è riuscito a gestire del tutto i contraccolpi del virus?

Sono due questioni separate. Pechino ha due ordini di problemi strettamente correlati che derivano dalla crisi del 2008.

Quali?

La Cina ha introdotto uno stimolo da 560 miliardi di dollari per operazioni infrastrutturali e immobiliari. In una logica di stimolo si sono aperte le maglie delle banche per quanto riguarda i finanziamenti ai cinesi. Attualmente il paese ha il 280% di indebitamento rispetto al Pil, un debito cresciuto in modo esplosivo. Il secondo fatto è che ci sono stati investimenti nel settore immobiliare molto forti. Le famiglie hanno tendenzialmente dirottato sull’acquisto della prima o della seconda casa i loro risparmi. La gestione di una eventuale bolla immobiliare è diventato problema primario, quello che stiamo vedendo con questi fallimenti è un segnale che il partito lancia al sistema delle imprese.

Che tipo di segnale?

È una manovra per far capire alle imprese di Stato che non necessariamente si interverrà. Il segnale lanciato al sistema delle imprese di Stato è: guardate, è finita un’era. Insomma, un rischio controllato.

(Paolo Vites)

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