Chi si occupa di conti mette in guardia: occhio a pensare che l’economia in Cina abbia davvero archiviato la pandemia di coronavirus senza conseguenze. E’ vero che il recente +4,9% fatto segnare nel terzo trimestre ha portato il risultato del Pil cinese in positivo (+0,7%) per quel che riguarda i primi 9 mesi del 2020, ma andando ad analizzare attentamente lo stato di salute dell’economia cinese si scopre che non è tutto oro quel che luccica. Lo ha evidenziato Il Sole 24 Ore, agitando lo spettro di fallimenti aziendali a catena in grado di “rovinare la festa alla ripresa dell’economia cinese“. Come riportato dal quotidiano economico, nell’arco di sette anni, cioè da quando è stato “concesso” ad un’azienda di Shanghai incapace di onorare i debiti di chiudere i battenti, i fallimenti sono aumentati infatti del 300%. Negli ultimi giorni, poi, due colossi statali del settore minerario e dei microchip nonché una ventina di aziende private hanno dichiarato default, mentre un altro gigante del real estate sta mostrando proprio in queste ore allarmanti segnali di cedimento.



CINA, FALLIMENTI A CATENA

Che qualcosa di pericoloso stia bollendo in pentola lo si intuisce anche dal fatto che giovedì la National Association of Financial Market Institutional Investors (NAFMII), ovvero l’organismo di autogoverno del mercato interbancario, a sua volta sorvegliato dalla Banca centrale, ha emanato nuove regole vietando la pratica del riacquisto del proprio debito direttamente o attraverso terzi. Fino a qualche tempo fa questa pratica era particolarmente diffusa tra le aziende a corto di liquidità e con scadenze urgenti, ma i vertici di Pechino, a maggior ragione considerando che i mercati per il momento sembrano ignorare questi allarmi, nella bozza del nuovo Piano quinquennale hanno messo in chiaro la necessità strategica di stabilizzare il sistema. Da qui il cambio di paradigma: da adesso in poi ci sarà bisogno di trovare soluzioni più trasparenti o, in alternativa, dichiarare default. Con la Banca centrale che ancora una volta ha deciso di non modificare il tasso di riferimento per i prestiti alla clientela prime rate (3,85% per il tasso a un anno), sono evidenti le preoccupazioni rispetto a quanto accadrà una volta che la Banca Centrale ridurrà le misure di stimolo, come ha pianificato di fare a tappe nonostante le incertezze che sembrano incrinare la fiducia nel sistema.



L’idea, per quanto difficile da praticare, potrebbe essere quella di pianificare i fallimenti delle aziende più in crisi. Più facile a dirsi che a farsi, anche per la tenuta sociale del Paese: Pechino rischierebbe infatti di trovarsi a fare i conti con la rabbia di migliaia di lavoratori improvvisamente disoccupati. Quando la Repubblica Popolare non può permettersi: il patto sociale tra restrizioni alla libertà e consenso poggia proprio sul “benessere” garantito alla sua popolazione.

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