Export che rallenta, squilibri interni dovuti alla bolla immobiliare, debito delle amministrazioni locali alle stelle e quello complessivo al 300% del Pil: l’economia cinese frena e Xi Jinping sta cercando di capire come rilanciarla. Quale sia realmente il suo piano ancora non si sa. Se però, spiega Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, dovesse spingere sul sostegno alle imprese di Stato puntando su esportazioni a dumping, potrebbe scatenare una reazione da parte dell’Occidente, che sarebbe costretto a mettere dazi per difendersi dalla concorrenza sleale.
Le dinamiche dell’economia mondiale, insomma, dipenderanno anche dalla strada che sceglierà il Partito comunista cinese per uscire dalle sabbie mobili di questa crisi. Dalla Cina l’economia globale non può prescindere: nonostante l’aumento dei salari resta il posto al mondo dove il costo del lavoro è più basso, anche se molte aziende straniere e privati cinesi hanno rilocalizzato parte della loro produzione in altri Paesi asiatici. L’Italia potrebbe subire meno degli altri questo momento di difficoltà, ma in virtù di una sua carenza: deve ancora crescere molto nel mercato cinese, dove esporta meno che in Belgio. Dovrebbe risentire meno, quindi, del rallentamento di Pechino.
Cosa sta succedendo alla Cina? Quali sono gli elementi che stanno rallentando la sua economia?
La Cina è in un momento di grande trasformazione: esce da un periodo in cui sul fronte esterno ha avuto la possibilità di essere il workshop produttivo del mondo. Una partita che, per una serie di considerazioni, può essere meno vera per il futuro. Sul fronte interno, invece, ci sono squilibri che si sono generati nel tempo e che, per esempio, hanno portato il Paese a fare degli investimenti molto forti in infrastrutture che adesso hanno un rendimento marginale sempre più basso. La Cina non può crescere, come è stato fatto in passato, andando a investire in infrastrutture.
Imprese e consumatori come stanno reagendo a questa situazione?
Il Paese ha una bolla immobiliare che pesa per un quarto del prodotto interno lordo, un problema gigantesco. Mentre le politiche di Xi di ringiovanimento della nazione e di priorità alle imprese di Stato stanno riducendo la fiducia delle imprese private e i consumatori credono sempre meno nel futuro. Insomma c’è una bassa propensione agli investimenti da parte dei privati e una bassa propensione al consumo delle famiglie. Se si mettono insieme questi elementi e si tiene conto che il volano dell’export è un po’ meno forte, si capisce perché il Paese stia passando un momento particolare. Deve individuare gli squilibri e puntare sull’innovazione, perché essere il workshop produttivo a basso costo del resto del mondo è sempre meno plausibile.
C’è anche un problema di aumento dei salari?
I salari sono aumentati ma la Cina resta il miglior compromesso al mondo per la produzione: ha ottime infrastrutture, qualità delle maestranze elevate e costi che sono cresciuti molto ma sempre meno degli altri. La Cina, comunque, fa fatica e nel 2024 potremmo vederne delle belle: non è detto che la politica di Xi sia sostenibile.
Sono diminuiti gli investimenti esteri, i capitali stranieri non arrivano più come prima. Quanto incide questo elemento?
C’è una forte riduzione degli investimenti diretti esteri in Cina, una parte delle imprese ha deciso di rilocalizzare fuori dal Paese parte degli insediamenti produttivi. Stanno crescendo Vietnam, Thailandia, Cambogia e Paesi limitrofi. Ci vanno cinesi e imprese straniere che scelgono questa soluzione per gestire il rischio geopolitico. Non vuol dire chiudere in Cina, ma una parziale rilocalizzazione.
Quindi non è vero che gli stranieri vanno via dalla Cina?
No. Pechino deve trovare un nuovo modello di sviluppo, che a me pare non essere quello di Xi Jinping. Detto questo però la Cina rimane imprescindibile per qualsiasi impresa globale, perché è un mercato enorme e perché è il miglior compromesso fra infrastrutture, qualità di maestranze e costi. Le aziende non vanno via, semplicemente producono in parte fuori dal Paese. La Cina è un motore fondamentale del pianeta, anche se potrà andare a giri inferiori, ma non avrà un tracollo. La rilocalizzazione delle aziende riguarda anche quelle cinesi: chi ha imprese globali si rende conto del rischio che sta correndo e sposta una parte della produzione.
Il modello Xi Jinping cosa prevede per ridurre questi squilibri?
Il modello di Xi non è chiaro. Se si guarda alla commissione consultiva che si è tenuta a fine anno si dice che da un lato bisogna sostenere le imprese di Stato e dall’altro bisogna sostenere le imprese private. C’è un grosso dibattito nel Partito comunista su quello che è il paradigma di sviluppo futuro.
L’incertezza che viene percepita all’estero quindi nasce anche da una mancanza di chiarezza all’interno?
I dati di crescita del Pil della Cina non vanno valutati come quelli del mondo occidentale, perché la crescita lì è pianificata, la raggiungono anche pompando investimenti, magari facendo cattedrali nel deserto come è successo nel settore immobiliare. Fare un 5% di Pil in più potrebbe non essere un fatto positivo, ma dipendere dalla realizzazione di infrastrutture che poi non servono a nulla.
Che tipo di conseguenze si possono prevedere per le economie occidentali, per l’Italia in particolare?
L’Italia deve crescere nel presidio del mercato cinese, siamo talmente indietro e abbiamo tali spazi di azione che anche un rallentamento dell’economia locale perturba fino a un certo punto. Esportiamo in Cina 18 miliardi e in Belgio 26 miliardi: vendiamo in un Paese da un miliardo e mezzo di persone meno di quello che esportiamo in uno da 10 milioni di abitanti. L’interscambio tra Europa e Cina, invece, è di 800 miliardi di dollari, la domanda di beni di lusso per il 40% arriva dai cinesi: se rallenta il mercato i francesi e in parte gli italiani cosa fanno?
C’è poi il tema del debito delle amministrazioni locali. Qualche analisi si spinge addirittura a immaginare la Cina fra qualche ano con un debito come quello italiano. È un pericolo reale?
Il debito delle amministrazioni è legato alla crisi immobiliare: le province hanno fatto molti prestiti per sostenere le imprese del real estate. Il debito cinese è già molto significativo, quello complessivo è quasi il 300% del Pil, è comunque sostenibile, ci sono riserve monetarie che permettono di gestire questo livello di indebitamento.
Il problema cinese è soprattutto legato al mercato interno o la diminuzione dell’export resta un elemento da tenere in eguale considerazione?
La Cina fino a poco tempo fa ha compensato problemi interni con lo sfogo delle esportazioni. Adesso con la crisi geopolitica in atto può perseguire meno la leva dell’export. Stanno cercando di farlo con il Global South, ma il Sud globale del mondo non è in grado di garantire un fatturato come quello occidentale. Quindi inevitabilmente il tema del motore economico interno è rilevante.
La situazione attuale della Cina viene paragonata a quella del Giappone di 30 anni or sono: una crescita impetuosa che poi si è fermata. È un paragone che calza?
È assolutamente così. Anche per il Giappone ci furono una bolla immobiliare e un rallentamento degli investimenti, la differenza è che i giapponesi avevano un reddito pro capite più elevato rispetto a quello della Cina di adesso.
Se Xi ha un problema di esportazioni questo non può indurlo a una politica estera diciamo più distensiva?
Dovrebbe, ma se la risposta è di ancora maggiore sostegno alle imprese di Stato perché esportino, e questo export avverrà a dumping, ci saranno reazioni tutt’altro che compiacenti del mondo occidentale.
In questo caso l’Occidente sarà costretto a mettere dei dazi per difendersi dalla concorrenza sleale?
Assolutamente sì. La situazione è complessa, ci sono una serie di variabili che si legano fra di loro. La scelta che farà il Partito influenzerà molto le relazioni della Cina e le politiche della Ue e del mondo occidentale. Andare verso un protezionismo vero sarebbe molto pericoloso. Per l’ennesima volta una scelta fatta in Cina va a impattare su tutto il mondo.
(Paolo Rossetti)
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