Dal Meeting di Rimini il ministro per Affari europei, Raffaele Fitto, ha ricordato che se non si troverà un accordo sulla riforma del Patto di stabilità e crescita potrebbero tornare in vigore dal 2024 le vecchie regole e questo creerebbe sicuramente dei problemi all’Italia. Nel frattempo a Johannesburg i Brics non escludono un loro allargamento e Vladimir Putin, in videocollegamento, ha evidenziato che la dedollarizzazione negli scambi tra i Paesi aderenti è ormai un processo irreversibile. Abbiamo fatto il punto con l’economista Domenico Lombardidirettore del Policy Observatory della Luiss ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale.



Cominciamo dalle parole di Fitto. È vero che c’è il rischio di un ritorno alle vecchie regole del Patto di stabilità, ma sulla loro riforma al momento ci sono due proposte sul tavolo: quella della Commissione europea e quella della Germania.

La sintesi dei negoziati in corso verrà presumibilmente definita a ridosso della scadenza a fine anno. Peraltro, i prossimi mesi saranno particolarmente interessanti sotto più profili. Innanzitutto, si dovrà meglio valutare se i segnali di stress che si stanno osservando in Cina evolveranno o meno verso una vera e propria crisi. Inoltre, occorre considerare l’impatto dell’escalation della guerra in Ucraina e nel Mar Nero e le sue conseguenze sui prezzi dei prodotti agroalimentari anche in Europa. Infine, dopo il downgrade sugli Stati Uniti operato da Fitch, le agenzie di rating potrebbero rafforzare la selettività della loro valutazione circa il merito di credito dei Paesi europei.



Oltretutto, l’economia europea non sta attraversando un buon momento…

La situazione si presenta incerta, data sopratutto la debolezza congiunturale particolarmente pronunciata della Germania, la principale economia europea e primo partner commerciale dell’Italia, che è entrata in recessione tecnica nel primo trimestre dell’anno. Penso che questo contesto indurrà a una valutazione un po’ più realistica delle opzioni in campo sulla riforma del Patto di stabilità, perché l’ultima cosa di cui c’è bisogno, data anche la politica monetaria che è stata significativamente inasprita nel corso dell’ultimo anno, è una politica fiscale parimenti restrittiva.



Non è da escludere, quindi, che si possa arrivare a una proposta diversa dalle due sul tavolo?

Credo che sia l’opzione più probabile, anche perché la Germania ha sì messo sul tavolo una proposta che per molti aspetti è restrittiva, soprattutto rispetto a quello che è il patrimonio di esperienza accumulato negli anni, ma l’ha fatto anche in funzione tattica per mettere dei paletti rispetto alla futura proposta che, inevitabilmente, avrà come punto di partenza quella della Commissione, cercando di delimitarla in alcune dimensioni.

Passando invece al summit dei Brics, diversi analisti vedono ormai questo foro in contrapposizione con il G7. Lei cosa ne pensa?

Dobbiamo ricordare che il G20 fu costituito con l’ambizione di essere inclusivo rispetto al G7, mettendo allo stesso tavolo Paesi avanzati ed economie emergenti, in modo anche che le varie aree del mondo, inclusa l’Africa, fossero rappresentate. Quello che sta succedendo nel summit di Johannesburg segna un po’ una sconfitta per quello spirito. Questo soprattutto perché la Cina sta cercando di creare un ecosistema alternativo sia per amplificare la propria influenza, sia per raggiungere un altro importante obiettivo.

Quale?

La Cina è al centro di una “guerra” commerciale e tecnologica con gli Stati Uniti che sta riducendo il trasferimento tecnologico e di konw-how che ha ricevuto sino a poco tempo fa dall’Occidente. Sta, inoltre, facendo delle prove generali per diventare il fulcro di un sistema di scambi commerciali e finanziari alternativo, qualora malauguratamente dovesse decidere di invadere Taiwan. Pechino sa, infatti, che in quel caso sarebbe oggetto di un impianto sanzionatorio senza precedenti e sta cercando di mitigare questo rischio.

I Brics possono effettivamente rappresentare un blocco dello stesso livello del G7?

I Paesi membri e quelli che vogliono farne parte appaiono accomunati da due fattori: il primo è un atteggiamento antagonistico nei confronti del sistema, anche di valori, occidentale; il secondo è cercare di beneficiare, in maggior misura, della rete di scambi con la Cina, che è pur sempre la seconda economia mondiale, per trarne vantaggi e investimenti. Non dimentichiamo, però, che il sistema occidentale come noi lo conosciamo oggi, imperniato sugli Stati Uniti, è nato anche tramite il Piano Marshall, le istituzioni di Bretton Woods e i tanti investimenti di Washington nelle economie europee distrutte dalla Seconda guerra mondiale. Bisognerà, quindi, vedere quanto la Cina vorrà effettivamente investire in questi Paesi che sembrano essere tenuti insieme da un atteggiamento antagonistico più che da un disegno costruttivo comune.

Si tratta però di Paesi che hanno le materie prime che servono a quelli occidentali…

Sì, peraltro l’Europa se n’è accorta troppo tardi: ha spinto sulle politiche di transizione digitale ed energetica, fatto assolutamente meritorio, senza però valutare appieno tutte le implicazioni, in particolare per quel che riguarda l’approvvigionamento delle materie prime necessarie. Il risultato è che viene indebolito lo stesso obiettivo che l’Ue si è posta.

Questo obiettivo andrà, quindi, rivisto, magari nella prossima legislatura europea?

La Commissione ha, di recente, aperto gli occhi, ma temo l’abbia fatto con troppo ritardo. Pechino ha ormai consolidato la propria posizione e sarà, quindi, per noi europei più costoso poterci approvvigionare delle materie prime necessarie. In particolare, saremo sempre più esposti alla Cina, che se minacciasse i nostri approvvigionamenti energetici metterebbe a serio rischio la nostra autonomia strategica.

Gli Usa dovrebbero, quindi, fare qualcosa in merito per non lasciare l’Europa in balia della Cina, soprattutto nel caso si arrivasse a quelle sanzioni senza precedenti di cui ha parlato poc’anzi in caso di invasione di Taiwan?

Sì, la relazione degli Stati Uniti con l’Europa si è molto rafforzata dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, ma viene sostanzialmente declinata in termini strategici e militari e non ci sono iniziative economiche di pari rilievo. In Asia osserviamo lo stesso fenomeno: gli Usa cercano di creare una nuova Nato per controbilanciare Corea del Nord e Cina, promuovendo una cooperazione militare rafforzata con Giappone e Corea del Sud, ma il progetto di creare un’area di cooperazione economica con i Paesi asiatici, Cina esclusa, si è arenato. Anzi, non è stato mai rilanciato da Biden, nonostante fosse Vicepresidente nell’Amministrazione Obama che lo promosse.

(Lorenzo Torrisi)

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