La Cina sembra in procinto di vivere una nuova rivoluzione culturale. È questa la sensazione che si ha leggendo le cronache recenti che provengono da Pechino.

Da quando il governo ha avviato la sua massiccia campagna di regolamentazione ai danni dei giganti del FinTech e del Big Tech, la stretta del Pcc sulla società cinese è diventata progressivamente più pervasiva e ha finito per interessare gli aspetti più disparati della società cinese. Una serie di misure che riguardano i videogiochi, che saranno vietati per più di tre ore alla settimana ai ragazzi con meno di 18 anni, fino a quelle prese di posizione contro l’industria dell’intrattenimento, che hanno colpito alcune delle maggiori star del paese con provvedimenti che vanno dalle sanzioni di natura fiscale a forme più sottili di censura, oscurando dal web alcuni dei personaggi più famosi. Interventi presi per contrastare il “culto delle celebrità” che fanno sorridere se messe a confronto con il crescente culto della figura di Xi Jinping, il cui pensiero, a partire da questo mese, diventerà parte dell’insegnamento nelle scuole primarie.



L’ideologia ispirata al “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” è divenuta parte integrante del curriculum nazionale di studi e, assurgendo allo status di “pensiero”, viene collocata sullo stesso livello di quella ispirata da Mao, quindi al di sopra della “teoria” di Deng Xiaoping e Jiang Zemin, anch’esse inserite nella costituzione cinese. Una strategia che punta a porre Xi in una posizione di forza nel 2022, quando cioè il Comitato permanente del Politburo verrà rinnovato e in cui si discuterà sulla possibilità di prolungare con un terzo mandato la leadership attuale.



A fronte di questo appuntamento Xi punta a rafforzare la sua posizione attraverso questo dispositivo che si basa sul combinato disposto di repressione finanziaria e disciplina della popolazione, che ha bisogno di essere legittimato dalla mobilitazione della società cinese attraverso parole d’ordine di facile presa sull’opinione pubblica, come quella della lotta alle diseguaglianze e ai grandi gruppi finanziari.

Per questo motivo il parallelo con la rivoluzione culturale voluta da Mao risulta abbastanza scontato, ma Xi non ha alcun interesse a far rivivere le giornate drammatiche vissute dal suo predecessore e sui giornali cinesi è frequente trovare articoli che puntano a normalizzare questa fase e a riportare la discontinuità operata dalla leadership cinese all’interno della costituzione e della tradizione culturale cinese.



Un ritorno al maoismo, quello di Xi, che però si configura come strumentale alla legittimazione della leadership, che però vuole evitare di creare fratture insanabili all’interno della società cinese e nel partito. Una strategia rischiosa, perché mobilitare l’opinione pubblica può portare ad esiti imprevisti per Xi e i segnali contradditori che provengono dalla stampa cinese fanno pensare a una strisciante lotta per il potere che potrebbe produrre delle novità interessanti. Una lotta per il potere che in continuità con la tradizione del Pcc si combatte sul terreno culturale e attraverso il controllo delle principali attività economiche, che, a dispetto della volontà di Xi, non sarà un processo indolore.

L’ambiguità che accompagna il documento “Il Pcc: la sua missione e i suoi contributi”, pubblicato il 26 agosto dal Dipartimento di pubblicità del Comitato centrale del Pcc, palesa l’imbarazzo con cui il partito sta vivendo questa fase. Un documento che condanna il culto della personalità e ribadisce, al contempo, che la dirigenza del partito non detiene un potere illimitato, quanto piuttosto ha la responsabilità di “guidare” il paese e di edificare una leadership collettiva. Un’impostazione che prova a tenere assieme il trentennio di Mao e quello di Deng Xiaoping, un’operazione teorica che in qualche modo prova a celebrare la figura di Xi, ma cerca una sintesi impossibile, perché mostra tutte le contraddizioni della leadership attuale.

Va da sé che il rafforzamento dell’egemonia di Xi può coesistere con una gestione collettiva del partito soltanto attraverso la mobilitazione di tutta la società e dei partecipanti all’Assemblea nazionale del partito, ma che potrebbe sfuggire di mano e minare la pace sociale, la quale costituisce la base della legittimazione dell’attuale dirigenza. L’auspicio di una “profonda rivoluzione” lanciato da un blogger e poi ripreso da un giornale vicino al partito come il Global Times, ha avviato un dibattito che ha interessato figure di spicco della società cinese – come ad esempio Hu Xijin, caporedattore del Global Times -, le quali si sono confrontate proprio sull’eredità della rivoluzione culturale, mostrando posizioni diverse e difficilmente conciliabili sulla direzione che deve prendere la società cinese.

A tal riguardo può essere utile l’analisi di Malcom Scott su Bloomberg, secondo il quale la provincia di Zhejiang, nella quale Xi ha costruito la sua carriera, vede il laboratorio della Cina del futuro, in cui lo Stato punta a determinare gli obiettivi che devono raggiungere le imprese e a controllare nel contempo il sistema finanziario. Una regione in cui “la prosperità comune” è solo la copertura ideologica di uno sviluppo che, in realtà, continua a interessarsi poco delle differenze sociali. Una realtà contro la quale la singolare rivoluzione culturale di Xi è destinata a scontrarsi.

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