La nostalgia della Guerra fredda sembra essere diventata la moda intellettuale fra gli analisti che commentano i recenti sviluppi della complessa relazione fra gli Usa e la Cina. Una spiegazione per questa moda intellettuale può essere di varia natura.
Come categoria storiografica la Guerra fredda oltre a rappresentare un titolo accattivante per vendere libri, ha il pregio di evocare un mondo decisamente più semplice di quello in cui viviamo e un’era in cui la divisione in due blocchi garantì equilibrio geopolitico all’ombra del quale il mondo occidentale conobbe la Golden Age, una fase di espansione materiale sostenuta e continuata senza precedenti. Evocare il rischio una nuova Guerra fredda, se da un lato implica la possibilità di un’escalation, dall’altro auspica una riconfigurazione delle relazioni internazionali in una forma di ordine garantito da due superpotenze, e quindi in due rispettive aree di influenza.
Niente di più lontano dall’attuale contesto geopolitico. La presenza di forze e di interessi che non possono sottomettersi a forme di regolamentazione – quelle che si incarnano nella finanza e nella competizione tecnologica – e il protagonismo di potenze come la Russia, la Turchia e l’India difficilmente assimilabili ad aree di influenza, rendono la rievocazione della Guerra fredda una semplificazione poco utile per descrivere l’incertezza sistemica di questa fase.
Con queste premesse si è aperta la tredicesima Assemblea nazionale del popolo, l’organo legislativo cinese che da qualche giorno ha monopolizzato l’attenzione dei media internazionali. È difficile tracciare delle linee di discontinuità nelle vicende cinesi, ma è molto probabile che quanto deciso nell’unica camera legislativa della Repubblica popolare cinese segna un profondo solco con il passato.
Il fatto che Li Zhanshu, il presidente del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, abbia rimarcato che mentre Cina ha risposto con successo alla crisi sanitaria in atto, altri paesi si trovano ancora in situazioni “cupe e complesse”, rende chiara la strategia di Pechino di utilizzare come strumento di propaganda il modo con cui il paese ha affrontato la pandemia. Inoltre l’enfasi posta da Li Zhanshu sul valore simbolico della vittoria sul virus – e quindi su una situazione in cui sempre più paesi guardano al modello cinese con interesse -, dovrebbe far riflettere molti analisti su quanto il governo cinese ha investito su questa partita. Un successo che crescerà in modo proporzionale agli eventuali fallimenti dei paesi occidentali nel trovare una risposta efficiente alla crisi sanitaria.
E’ una strategia che accompagna il processo di accentramento del potere nelle mani di Xi Jinping – che non a caso è stato celebrato con una retorica che richiama quella del periodo maoista -, il quale ha volutamente comparato la lotta al virus alla “guerra di popolo”. Una vittoria collocherà l’attuale presidente della Repubblica popolare cinese al di sopra dello stesso Mao, perché la posta in gioco di questo conflitto è globale e deve dimostrare la superiorità del modello cinese. Un modello in cui la scientificità della teoria del marxismo si declina nelle forme tecnocratiche di uno scientismo ipertecnologico che si sposa a un nazionalismo sempre più esclusivista, per il quale l’apertura all’Occidente è la causa del crescente individualismo e della corruzione della politica e dei costumi tradizionali.
La fine dell’autonomia di Hong Kong è il risultato dell’arrocco di Pechino, che con la Legge sulla sicurezza nazionale rischia di far saltare il principio “Un paese, due sistemi”, che garantendo l’unicità di Hong Kong assicurava alla Cina una porta d’accesso privilegiata ai mercati finanziari internazionali. Rinunciare allo status privilegiato di Hong Kong vuol dire che ormai anche Pechino scommette contro la globalizzazione e preferisce rinunciare a una piazza finanziaria e a una sede ideale per attrarre multinazionali e capitali esteri, piuttosto che perdere la partita geopolitica che ha in Taiwan la posta più alta.
A fronte di questa progressiva chiusura e dell’accentuazione degli aspetti autoritari e tecnocratici della presidenza Xi Jinping, non possiamo, però, liquidare come propaganda i richiami al multilateralismo e alla cooperazione che a più livelli ritornano fra le dichiarazioni della diplomazia cinese, che sembrano essere, piuttosto, il palesarsi in una parte della leadership cinese della consapevolezza dei rischi che comportano una chiusura verso il resto de mondo. Nel negare l’accusa di seguire la strategia del “Lupo guerriero”, il ministro Wang Yi ha fatto intendere che la Cina non vuole innalzare il livello della competizione con gli Usa, ma che, al contempo, non vuole subire il “virus politico” che l’amministrazione Trump starebbe propagando ai danni degli interessi cinesi.
Detto altrimenti, la Cina è disposta a cooperare su tutti i tavoli, ma non ammette ingerenze sulle questioni di Hong Kong e Taiwan, anche a costo di evocare quella che, per usare le parole del ministro Wang Yi, è il rischio di una “nuova Guerra fredda”. Un bluff che cela i rischi che comportano il ritiro dalla globalizzazione e il concentrarsi sul dossier Taiwan. Perché la diplomazia cinese è consapevole del fatto che una nuova Guerra fredda potrebbe avere lo stesso esito della vecchia: il successo degli Usa.
Anche per questo motivo, mentre in questa fase sembra essere accerchiata su più fronti – le crescenti tensioni con l’India si andrebbero ad aggiungere a un quadro in cui aumentano le difficoltà dei cinesi in Africa – la Cina ricalibra le sue priorità sulle questioni domestiche, provando a mettere in sicurezza il consenso popolare e la stabilità interna. L’approvazione da parte dell’Assemblea nazionale del popolo del primo codice civile cinese, in cui si cerca una sintesi fra la cultura giuridica occidentale e quella asiatica e quindi l’equilibrio fra le libertà individuali e il dovere verso la comunità e la volontà – che agli italiani deve suonar familiare – di Xi Jinping di voler eliminare la povertà entro la fine dell’anno in tutto il paese, fanno comprendere la portata dell’arrocco cinese.
Al momento la difesa del proprio modello sociale e la lotta al “separatismo” – la questione della riunificazione con Taiwan – sono le vere preoccupazioni di Pechino, che per questo motivo non può permettersi di vacillare nei confronti delle proteste di piazza a Hong Kong, anche a costo di pagare un prezzo che fino a pochi anni fa sembrava inimmaginabile, ovvero una nuova Tienanmen. La Cina è alle prese con un paradosso di difficile soluzione, per rispondere alle minacce esterne si arrocca su se stessa, ma ciò implica una chiusura nei confronti del mondo che la condanna a perdere la battaglia per la leadership globale.