Il 27 marzo, al mattino presto, Trump comunicava al mondo tramite Twitter – metafora del nuovo mondo – di aver avuto un colloquio cordiale e proficuo con il presidente cinese Xi Jinping. “Abbiamo discusso in dettaglio il coronavirus che sta devastando gran parte del nostro Pianeta. La Cina è stata molto coinvolta e ha sviluppato una forte conoscenza del virus. Stiamo lavorando a stretto contatto insieme. Molto rispetto!”. Dopo gli scambi d’accuse roventi su quale paese fosse la causa della creazione e diffusione del Covid-19, finalmente le relazioni tra i due giganti sembrano tornate più serene.



“Sembrano”, appunto. Confronto difficile quello tra l’abilissimo negoziatore americano, celebre per la sua capacità e tenacia, ed i pazienti, enigmatici, ostinati cinesi disposti a tutto, abili nello sfruttare ogni mezzo ed ogni occasione, anche le pandemie, per aumentare il loro potere.

A riprova, quello che è avvenuto negli ultimi giorni, l’uso della cyber war, della disinformazione tramite l’utilizzo dei social in una sfrenata guerra di comunicazione. Ne sappiamo qualcosa noi italiani che abbiamo assistito allo sbandierato invio di aiuti, pompato in ogni modo, anche con la diffusione di filmati falsi di folle plaudenti dagli italici balconi ai medici cinesi e inondati dai falsi tweet provenienti dall’ambasciata cinese inneggianti all’amicizia dei due popoli. Secondo gli esperti di cyber war, quasi la metà dei tweet pubblicati tra l’11 ed il 23 marzo con hashtag “forzaCinaeItalia” e un terzo di quelli con hashtag “grazieCina” sono stati prodotti da bots.



Ma appunto perché? Quali sono gli obiettivi? Cosa vuole la Cina e quali metodi usa per ottenerli?

Quello che il governo di Pechino vuole è abbastanza semplice. Più potere. Vuole contare di più, vuole un ruolo adeguato ai suoi enormi numeri, dall’alto del suo peso politico, economico, demografico, culturale. Vuole essere partecipe delle decisioni sul mondo. Cina come “potenza revisionista”, come dicono in gergo gli scienziati politici per definire una nazione che non accetta più il posto che una vecchia storia le ha assegnato.

Il fatto è che all’orizzonte non c’è nessuna nuova Yalta. Non è previsto nessun incontro tra i grandi della terra per discutere il da farsi, le sorti del mondo, le reciproche sfere di influenza. Al centro del sistema internazionale rimangono gli Stati Uniti con la loro supremazia assoluta economica, tecnologica e militare. Stati Uniti forti, fortissimi, ma non abbastanza da governare il mondo da soli, anche se l’unipolarismo fosse desiderabile. Adesso, la “fine della storia” annunciata nel 1992, con una sola e solitaria potenza egemone alla guida, è un ricordo lontano. In cambio c’è un disordine con molti attori che sgomitano per salire al piano nobile o per lo meno a tavola. Un mondo dalle dinamiche caotiche, dalla logica fuzzy.



Per capire, per iniziare a inquadrare la politica estera cinese, è necessario mettere al centro il funzionamento di quello che si chiama ordine mondiale ai giorni odierni. Il disfacimento dell’Unione Sovietica ha significato non solo la fine del bipolarismo, ma di un gioco che aveva principi, regole e modalità di confronto rodate, varate in quella lontana conferenza di Yalta quando nel febbraio del 1945 le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale decisero i destini del mondo. A seguire, non tutto fu rose e fiori, molte le crisi. Berlino, Cuba e ancora le guerre periferiche, il Vietnam. Ma appunto, era un ordine condiviso, un equilibrio rafforzato dalla paura del nucleare, con due gendarmi a sorvergliarlo che non disdegnavano di tirarsi qualche colpo basso approfittando di ogni occasione, controllando però le dinamiche anche negli scacchieri periferici.

La scomparsa dell’Urss ha trascinato via con sé anche quell’ordine, la sua logica ferrea ed i suoi riti. Ma ne è appunto crollata solo da una parte, solo un lato dell’impalcatura è finita sotto le macerie. Di contro gli Stati Uniti hanno rafforzato tutte le istituzioni e organizzazioni internazionali che in un qualche modo riconducono a loro e portano il marchio del libero mercato, dalla Banca Mondiale al Fondo Monetario Internazionale, fino al dato di fatto del dollaro quale moneta forte, protagonista degli scambi internazionali. Il primato degli Stati Uniti però non si ferma qui. Vanno aggiunte le alleanze militari internazionali che ruotano intorno ad essi, a cominciare dalla Nato e dalla speciale relazione con la Gran Bretagna e di conseguenza con i paesi del Commonwealth sparsi ai quattro lati della terra.

La forza americana è imponente, impossibile da sfidare a viso aperto sul suo terreno. E poi perché? La stessa Cina siede nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, usufruisce appieno dei benefici della globalizzazione, fa anche parte dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (Wto), ha una diaspora sparsa tra i continenti pari a circa quaranta milioni di individui. Il suo sviluppo economico lo deve alle esportazioni che vanno anche verso il suo avversario, alla sua possibilità di acquisto di quella moneta forte, dei buoni del tesoro americani di cui sono piene le casse cinesi. La sua ricchezza futura dipende dalla sua capacità di espansione attraverso la Via della Seta. La Cina sta attuando inoltre un cambiamento epocale. Per la prima volta nella sua storia si sta trasformando in una potenza marittima e non solo continentale! Perché allora mettere in pericolo questi traguardi? Che senso avrebbe?

E qui arriva la strategia di Pechino. In un orizzonte dai tempi lunghissimi, la leadership cinese vuole esercitare una continua pressione sul suo avversario, utilizzando tutti i mezzi a disposizione di uno Stato, amplificati dalla rivoluzione informatica, dalla globalizzazione e dallo sviluppo dei media, con metodi anche illegali, sporchi. Attenzione, però: rimanendo sempre sotto la soglia della violenza armata.

Campagne mirate organizzate secondo la dottrina delle “Tre guerre” (san zhong zhanfa), approvata dal Comitato Centrale del Pcc e dalla Commissione militare nel 2003, che vede l’utilizzo coordinato dei media, della guerra psicologica e degli strumenti legali sotto un unico comando. L’obiettivo è solo uno. Imporre la propria volontà, indebolire la determinazione dell’avversario, conquistare l’opinione pubblica del contendente e quella internazionale rafforzando al contempo i sentimenti patriottici interni, delegittimare il nemico nelle istituzioni internazionali servendosi dei meccanismi della propaganda e attraverso azioni legali. Perché il centro di gravità delle nuove guerre è sempre di più la volontà dell’avversario.

La logica del nuovo clima è non lineare, discreta. Nessuna differenza netta tra pace e guerra, ma un continuum lungo una zona grigia; non esiste una vittoria definitiva né il suo contrario; ci sono momenti di alta conflittualità, forse anche di uso della forza, magari nascosta, mascherato oppure per procura. E la pace è solo una tregua, un periodo di calma.

Non la guerra continuazione della politica, anzi il suo esatto contrario. La politica conseguenza della guerra.

Strategia dal notevole appeal che, se applicata con metodo e ben strutturata, è in grado di raggiungere effetti specifici in modo quasi scientifico.

Una nuova Lunga marcia maoista, questa volta anche solcando i mari, sotto le bandiere del capitale verso il potere mondiale in un mondo globalizzato! Questa è la Cina oggi.

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