In una prestigiosa scuola di giornalismo di una prestigiosa università gli aspiranti professionisti, sicuri ormai di diventarlo poiché la scuola garantisce l’iscrizione all’albo, leggono con avidità le “inchieste” giudiziarie dei grandi quotidiani, dopo aver assistito febbrilmente ai programmi tv della sera precedente. Intercettazioni a valanga, titoli strillati, indagini sugli intrecci di potere sempre “oscuri” e sempre “criminali”, ricostruzioni biografiche di personaggi sospetti e abilissimi, sempre colpevoli. L’insegnante chiede calma e capacità di ragionamento, si appella alla “presunzione di innocenza”, propone di considerare l’aspetto umano di chi finisce travolto dal tribunale mediatico prima ancora di aver potuto incontrare il proprio accusatore, ricorda i tanti casi finiti nel nulla ma solo dopo aver distrutto vite e famiglie, infine, sfinito, implora di almeno non dimenticare il precetto del giornalismo illuministico e relativistico, quello che tutti dicono di praticare: prima di tutto, dubita! Ma niente da fare. I giovani invidiano i colleghi che firmano gli articoli più duri e sprezzanti, gli autori di programmi di giustizia popolare guardandoli diventiamo tutti tricoteuses in attesa di veder rotolare le teste dalla ghigliottina. Li invidiano, e vorrebbero essere come loro (una parte, l’altra sogna invece il giornalismo sportivo: non è inquietante?), cavalieri che infilzano la spada nel cuore del corruttore, del corrotto, dell’inquinatore, della spia, del pedofilo, del traditore, del ladro, dell’assassino (ma solo se è mafioso o camorrista o n’dranghetano). È la stampa, bellezza, di che ti disperi?



Dopo aver scritto un articolo infamante su una persona, l’influente gran professionista si giustifica: «ho letto le agenzie e le accuse erano così chiare, i giudici così certi… e poi se avessi saputo che era un tuo conoscente avrei lasciato perdere, figurati che quel pezzo l’ho scritto mentre ero in viaggio in Armenia!». Intanto il direttore brillante, che spara pagine e pagine di intercettazioni solo perché fanno comodo alla sua parte politica, si schermisce: «Che problema c’è, non vedi che lo fanno tutti? Non posso farmi fregare». E il tiepido caporedattore, affranto, si difende: «Non sai la pressione pazzesca della procura sui miei cronisti, d’altra parte quell’indagato si difende così male…». È la stampa, bellezza, di che ti preoccupi?
Molti di coloro che negli anni Settanta e Ottanta facevano “controinformazione” oggi sono i più sereni e imperturbabili padroni della parola pubblica. Una volta il magistrato era simbolo di un potere inumano e falso, oggi è ubbidito e venerato, una volta si esigevano le prove dall’accusa, oggi si pretendono dalla difesa. I giornali fanno da solerte tipografia dei palazzi di giustizia, le agenzie dettano “la linea” dei titoli ispirati dai capi d’accusa, i programmi tv mettono in scena i surreali dialoghi “estratti” dalle telefonate, ecco, vedete? sentite? diamo il via alla ghigliottina? Con il paradosso che oggi le testate di destra “devono” tifare la tanto aborrita magistratura «che fa politica» dal momento che da un paio d’anni bersaglia la sinistra. È tutto a senso unico, il giustizialismo come il garantismo. Invece il cinismo viaggia in tutte le direzioni.
Rispetto per la persona? È moralismo. Verifica dell’accusa? Formalismo.

Voci sempre più flebili e ormai spente hanno chiesto al giornalismo italiano un sussulto di dignità, di autocoscienza, di orgoglio. Che libertà di stampa è quella di mandare in pagina le fotocopie degli atti di indagine? Eppure le istituzioni del nostro giornalismo si ergono a difesa di questa libertà da camerieri piuttosto che esigere dai membri della sottocasta mediatica imparzialità oggettività e autonomia (quelle autentiche, non quelle finte). La verità è quella che abbiamo tutti i giorni davanti agli occhi: il «cane da guardia del cittadino», secondo la pomposa e falsissima autodefinizione dell’informazione, ormai abbaia solo a comando

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