Se scrivete su Google la parola “Innovazione” scoprirete oltre 113 milioni di voci. Più avanza la crisi economica e sociale, più la trovate citata nei discorsi di politici e imprenditori. Nel frattempo, però, il World Economic Forum segnala che ogni anno l’Italia scivola sempre più in basso nella classifica della “propensione all’innovazione”. E questo avviene in un momento in cui proprio l’innovazione, intesa non solo come novità di prodotto o di processo, ma come vero e proprio cambio di paradigma economico e sociale è, secondo i pensatori più acuti e illuminati, l’unico modo per uscire da una crisi davvero drammatica.
Afferma Oscar Giannino: «Dirlo non è consolante, ma questa è una crisi che si vede una sola volta nella vita. Vorrei una classe dirigente – politici, accademici, banchieri, imprenditori – capace di affrontare questi temi senza paura… una classe dirigente che, guardando la storia del nostro paese, sappia dire agli imprenditori che ci vogliono nuovi metodi di sconto del rischio per le loro idee, e sappia offrirglieli in concreto».
Una crisi epocale richiede risposte nuove
Sul fronte dell’analisi sociologica incalza Giampaolo Fabris: «Dobbiamo prestare attenzione alla natura reale di una crisi davvero epocale. Perché ci traghetta verso un’epoca nuova: che la si chiami postmoderna o in qualsiasi altro modo, poco importa. E questa richiede risposte nuove, anche sul fronte del consumo. Credo sia difficile infatti preconizzare un futuro in cui avremo più macchine, mangeremo più cibo, indosseremo più abiti. La risposta più miope è non prendere atto di tutto ciò e auspicare una ripresa di un modello che ormai fa acqua da tutte le parti… Quella che un tempo era la funzione più innovativa dell’impresa, e più capace di ascolto, – il marketing appunto – appare adesso abdicare a questo ruolo. Incapace di comprendere i mutamenti epocali che stiamo attraversando. Orientando l’agire sui mercati con gli occhi prevalentemente rivolti allo specchietto retrovisore».
È qui che volevo arrivare: se osserviamo la società riflessa dalla nostra tivù – a prescindere dalla fattura tecnicamente buona o meno dei programmi e da alcune assai valide eccezioni – si ha l’impressione di una società con lo sguardo prevalentemente rivolto al passato. Ultimamente poi – per non parlare dei format sempre uguali – è tutto un ricorrere alla nostalgia del tempo che fu. Gli anni cinquanta-sessanta-settanta, le canzoni di una volta, e così via. Se è assai lecito e corretto affermare che nei momenti di crisi si ha diritto a rilassarsi un po’, è anche lecito domandarsi quale immagine del paese ci rimanda e ci ha rimandato complessivamente in questi anni la nostra tivù. A quali modelli si è ispirata, quali ambizioni ha coltivato.
Il ruolo della tv nella formazione delle coscienze
Stiamo lontani dall’inutile dibattito se la tv deve o non deve essere pedagogica, perché lo è sempre, sia che trasmetta un programma coltissimo che un programma di intrattenimento. E infatti oggi ci troviamo di fronte a nuove generazioni che, come afferma Francesco Merlo: «Possiedono un linguaggio sguaiato e povero… ragazzi che crescono con quelle fantasie tv come in passato coltivavano i sogni che venivano dalla letteratura».
Sostiene Luca Lischi, professore di Sociologia dell’educazione all’Università di Firenze: «È la mediocrità della vita che si è sviluppata ovunque e a ritmi preoccupanti in particolare tra le nuove generazioni. Mediocrità nel sapere, mediocrità nel fare le cose, nel lavorare, nel dedicarsi a ogni questione vitale e formativa per la crescita culturale delle nostre comunità. Mediocrità nel gestire le relazioni e gli affetti… Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: un livello culturale sempre più tendente al basso, stimoli incapaci di smuovere gli animi e suscitare passioni gioiose e dinamiche… Sono sempre più scarse le spinte atte a favorire una crescita cerebrale affinché il nostro cervello non rimanga povero».
La verità è che in tv si può benissimo puntare sulla qualità sia utilizzando un linguaggio colto che un linguaggio popolare… ma spesso è più facile rifugiarsi nei facili espedienti che assicurano l’audience.
Nuovi contenuti per nuove tecnologie
Eppure anche il tradizionale meccanismo dell’audience sta mutando, perché il pubblico di massa si sta smembrando in tante nicchie che l’avvento del digitale terrestre, del web e della tv tematica satellitare sta moltiplicando. “Niente è più come prima”, recitava il titolo del bel convegno sul digitale terrestre promosso dall’Associazione DGTVi. Mai titolo mi è parso più azzeccato… purché non si pensi solo a tecnologie nuove ma anche a contenuti nuovi.
Parlando dell’imbarazzante successo di Allevi, così ben stigmatizzato da Uto Ughi, Maurizio Carugno ha scritto su ilsussidiario.net: «Sono persino riusciti a farci credere che la mediocrità sia un valore da perseguire, soprattutto se diventa fattore di consenso».
Che fare allora? Rimbocchiamoci le maniche, perbacco. Perché ha ragione da vendere Aldo Grasso quando afferma : «Il nuovo di una nazione passa anche attraverso il nuovo della sua televisione… Si può essere nazione anche con un programma televisivo: questo dovremmo imparare, noi figli illegittimi di Sanremo».