Quali che siano i modelli di pagamento che alla fine verranno proposti dalle aziende editoriali – e abbiamo visto nellarticolo precedente cosa bolle in pentola -, è chiaro che i giornali, alla prova di Internet, sono chiamati alla sfida di non limitarsi a essere solo una versione per il web delledizione cartacea. Le innovazioni introdotte in questi anni, soprattutto dai social networks, e lavvento di una generazione digitale abituata a vivere immersa nella multimedialità e ad agire in multitasking, chiedono passi avanti. Le storie del mondo saranno sempre più raccontate con un mix di scrittura, video, audio, grafica, interazione.
I grandi organi dinformazione americani si stanno adeguando, imparando lentamente a fare i conti con tre concetti, tre C, introdotti dallera digitale nel lessico giornalistico: Comunità, Condivisione e Conversazione.
Nello stesso tempo, la stampa tradizionale garantisce altre due C decisive: Contenuti e Credibilità. E offrirà ancora – come ha fatto nel corso della sua storia – luoghi di informazione, riflessione e approfondimento dove proporre in modo organizzato una panoramica degli eventi spesso caotici del mondo. Un compito essenziale, perché allorizzonte si profila un rischio ben più grave del crollo degli imperi di carta.
Internet infatti tende a favorire le nicchie. Non solo quelle geografiche (mi interessa solo quello che avviene dietro langolo di casa), ma soprattutto quelle mentali. Il fiorire di uninformazione su misura, lesplosione dei blog e dei commenti online, il diffondersi di programmi che permettono di scegliere solo quello che ci interessa nel mare delle news (è il caso dei lettori Rss, ma anche di Twitter), creano il rischio che si finisca per chiudersi in recinti digitali, dove si legge e si guarda solo ciò che conferma le idee che ci siamo già fatti. Lo ha denunciato giorni fa anche Barack Obama, dicendosi preoccupato da ciò che vede emergere nella blogosfera.
Rischiamo di perdere il gusto per la diversità e di vivere senza veder mai sfidate le nostre opinioni (e i nostri pregiudizi). Un mondo di nicchie che, a lungo andare, mina la convivenza. « un paradosso dellera digitale – ha scritto Megan Garber, in unanalisi sulla Columbia Journalism Review – il fatto che la diversità dei nostri organi dinformazione minacci la più vasta diversità del discorso pubblico. Quello che sta emergendo, è che la democratizzazione dellinformazione è in qualche modo in contrasto con la democrazia stessa.
Ed ecco che riemerge l’importanza del vecchio quotidiano “generalista”, nelle sue versioni cartacea (che non è destinata certo a sparire, ma solo a mutare) e digitale. I modelli di business per l’informazione funzioneranno solo se il lettore/spettatore/navigatore riconoscerà che uno sguardo ampio sul mondo, proposto con credibilità e autorevolezza, vale la spesa. Anche online.
Non è quindi un’esagerazione parlare di momento cruciale per i media. Da una parte c’è il bisogno di trovare il modo di tutelare l’industria dell’informazione di fronte all’emorragia delle news gratis. Dall’altra ci sono le affascinanti opportunità offerte dall’era digitale, che permettono di raccontare storie in un modo nuovo e creativo e che attendono di essere sfruttate a fondo.
I pionieri in viaggio su queste frontiere stanno già mostrando cosa si può fare: basta andare a vedere il lavoro di grandi botteghe di giornalismo multimediale come Mediastorm (http://mediastorm.org/) o le gallerie fotografiche di Duckrabbit (http://duckrabbit.info/blog/) e del New York Times (http://lens.blogs.nytimes.com/). Oppure andare a scoprire il gran numero di giornalisti – fenomeno insolito – che hanno preso a frequentare negli Usa le lezioni di un maestro del design e del “bello” come Edward Tufte (http://www.edwardtufte.com).
Ecco, parafrasando Dostoevsky, ci si potrebbe azzardare a dire che più che i modelli di pagamento, è “la bellezza che salverà il giornalismo”. Non è cioè solo una faccenda di soluzioni tecnologiche, ma di passione per l’umano e capacità di raccontarlo facendo buon uso di ciò che la tecnologia ci mette a disposizione.
Lo ha detto (assai meglio…) Papa Benedetto XVI nella sua ultima enciclica: “Al pari di una corretta gestione della globalizzazione e dello sviluppo, il senso e la finalizzazione dei media vanno ricercati nel fondamento antropologico. Ciò vuol dire che essi possono divenire occasione di umanizzazione non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati alla luce di un’immagine della persona e del bene comune che ne rispecchi le valenze universali”. (Caritas in Veritate, 73).
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