Brava Margherita Buy a dare vita sullo schermo alla solitudine umana. davvero un ritratto di una donna sola, che non riesce a farsi cambiare dalla gravidanza e non riesce – ma alla fine si vede un barlume di speranza – a diventare mamma. Non laiutano certo gli uomini che incontra affettivamente e non laiutano certo i medici ritratti nel film.

La protagonista non è aiutata da nessuno a vivere una vita affettiva e sociale e tantomeno a elaborare lo shock della nascita prematura: la donna è obbligata ad elaborare da sé il lutto della perdita legata alla nascita prematura, e passa – ottima lidea della regista di rappresentare le prime tre fasi del classico lutto – dalla negazione alla rabbia, quindi alla fase di contrattazione.

Dunque più che un inno alla maternità ci sembra un appassionato grido di solitudine. Soprattutto perché il grande assente – oltre al padre vile che fugge – è proprio la figlia. Già, la bambina non si vede mai nel film, se non di sfuggita, non interagisce, non viene accudita, non si muove.

Eppure la moderna medicina (e il senso di affetto di ogni madre) capisce bene che già nei piccolissimi prematuri è presente la capacità di interazione, e che già i prematuri sono psicobiologicamente sociali, come dice Heidi Als, icona della psicologia neonatale. E che questa capacità può essere utilizzata proprio per curarli al meglio in un lavoro che ha al centro proprio il bimbo e la sua famiglia.

La bimba del film non riceve nemmeno il nome dalla madre, se non dopo la sollecitazione del medico. Invece Irene è là, respira, reagisce, guarda, ma la madre non sembra sentirla come una neo-nata, ma come unestranea, una sua appendice forse, ma non come una compagna, una bambina, una figlia: la bimba è assente nel vissuto della madre, segno di una sua assenza psicologica – pur comprensibilissima – che attende un aiuto esterno che non arriva.

Arriva invece linquietante figura del neonatologo con cui la donna finisce a letto. Credo di sentire la condanna ferma che sale da tutti gli spettatori: nessun medico può impunemente approfittare di una donna in evidente stato di prostrazione, tanto più se madre di una paziente. Ma dalla donna nessuna reazione di dispetto, come se non si rendesse conto dellimproprietà dellevento, altro evidente segno di un suo proprio disagio.

Ma pur nella tristezza di questo grido di solitudine, ci piace finalmente sentir parlare di un tema eticamente sensibile senza lunica, inevitabile, indomabile, ripetuta discussione: su chi e come far vivere, su quando la vita sia degna di essere vissuta eccetera. Perché oggi la discussione sui temi della vita si è ridotta proprio a questo: chi vive e chi è meglio che non viva. Basta. Mai che si parli di come far vivere meglio, di come accompagnare, accettare, amare, ricordare, soccorrere.

L’etica di oggi è l’etica della fuga, di quando si sente qualcosa come un ostacolo o come superfluo e si cercano le vie per aggirare il primo o per “scaricare” il secondo. Invece questo film non parla di morte, ma di un dramma che nessuno aiuta a superare. Ma è un film che per questo diventa necessario: affronta la realtà psicologica dura – fortunatamente questo è un caso estremo – per invitare lo spettatore a non finirvi dentro, a cambiarla.

 

Non ci racconta una storia di coraggio, ma di tristezza, che è la tristezza della solitudine, in cui qualcuno si approfitta di te, in cui ti senti come in una bolla di sapone, isolato dal mondo, contro cui reagisci male, ti senti aggredito, ti isoli e ti disperi in silenzio; in cui non riesci nemmeno a riconoscere tuo figlio e in cui non si diventa mai madri/padri. E dunque non è una storia pro-life, ma about-life, cioè racconta quello che potremmo tutti essere quando restassimo tristi e soprattutto soli. E ci fa parlare di un tema etico nuovo per i media, finalmente.

 

Ma lo “spazio bianco” nella realtà non è vuoto: può essere colmato e in molti lavoriamo per questo (o almeno tentiamo), anche se abbiamo sempre in agguato il tarlo dell’indifferenza. Si colma quando la madre (e il padre) parla con le infermiere di come il bambino ha passato la notte, si colma quando sente per la prima volta il medico che lo chiama per nome e vede che lo accarezza, e impara ad accarezzarlo a sua volta, anche se è così fragile, e lei è piena di sensi di colpa o di ansia o di paura; si colma in un percorso condiviso.

 

Ho recentemente scritto che il dolore del bambino si cura curando prima quello del genitore e perfino quello (stress, burn-out, senso di impotenza) del personale sanitario che assiste il piccolo; ed è un percorso virtuoso possibile e fruttuoso che vuole considerare il disagio in tutte le sue sfaccettature e non vuole ridurre l’assistenza a una fredda “offerta di servizi”. Lo “spazio bianco” è colmato dal riconoscere il reale: l’umanità del figlio, quella di un amico che nella tristezza resta vicino, la riscoperta della propria umanità quando il dolore bussa alla porta.

 

Ma lo “spazio bianco” non finisce sempre col lieto fine. Già, perché per alcuni lo “spazio bianco” finisce con una malattia cronica, con una disabilità. Ma per chi ha appreso a colmare lo “spazio bianco” legandosi con forza alle poche persone importanti della vita, apprendendo a chiamare per nome il piccolo neonato, può essere un sentiero meno irto e duro.

 

Speriamo che il prossimo bel film sia su queste persone che soffrono per una malattia e lentamente apprendono – come avviene per tanti malati cronici e per le loro famiglie – che la malattia è un colpo terribile, ma non è la fine della vita: ce ne sono tanti di genitori così, che chiedono più attenzione da parte della Società, che per pudore reclamano solo sommessamente, ma che meritano i titoli in prima pagina, magari al posto di tanto gossip o tanta propaganda dell’etica della fuga.