Dillinger è morto. Questo il titolo di un famoso film di Marco Ferreri che porta con sé tutto il sapore del periodo in cui venne girato, il 68. Fra parentesi: con Dillinger non centra assolutamente nulla. Se invece volete appagare la curiosità sul Nemico Pubblico numero 1 per eccellenza (così lo battezzò lFBI) non dovete perdervi lultima straordinaria perla di Michael Mann, Nemico pubblico appunto. La storia pressoché fedelissima di uno dei più famosi criminali americani (ai tempi Capone era finito da poco dietro le sbarre) è riproposta con indubbio fascino dal regista statunitense.



Rapinatore di banche, Robin Hood moderno. La vicenda del criminale morto a soli 31 anni era già divenuta leggenda nel vissuto collettivo americano fin dai tempi della sua attività. Lo dimostra bene il lungometraggio di Mann nel quale un elegante John Dillinger/Johnny Depp, con tanto di baffetti alla Clark Gable, fa sfoggio delle proprie imprese davanti a una folla di giornalisti e pubblico in delirio. Arrestato più volte e altrettante evaso, innamorato perdutamente di una donna e tradito fatalmente da unaltra, intraprendente, violento, geniale, sicuro di sé e al contempo fragile, il personaggio si destreggia amabilmente fra gangster movie e noir. Ad accompagnarlo, oltre a una meravigliosa e straordinariamente femminile Marion Cotillard nel ruolo della fidanzata storica del criminale Evelyn Billie Frechette, gli altri gangster-star del tempo: il bravo Stephen Graham nei panni di Baby Face Nelson (così era soprannominato il bandito Lester J. Gillis) e Channing Tatum/Charles Arthur Pretty Boy Floyd. Ricordiamo infatti che il titolo in inglese sarebbe letteralmente Nemici Pubblici.



A far da contraltare alla combriccola il monolitico agente dellFBI Christian Bale/Melvin Purvin capeggiato dallo smanioso Billy Crudup/J. Edgar Hoover ai tempi appena eletto al Bureau.

Gli ingredienti ci sono eccome. Il piatto è la trama che altro non ha da fare se non appoggiarsi, per lo meno sui punti salienti, a quella che è stata una storia di per sé straordinaria. E quindi che cosa approfondire? L’umanità dei personaggi. Ci riesce con il solito coraggio Michael Mann, quasi sempre attratto dal confronto fra il “giusto” e l’“ingiusto” non in quanto termini astratti bensì come categorie che identificano le persone nel pensiero comune. E spesso le prospettive risultano rovesciate. Non si tratta di assolvere un criminale sullo schermo, né di cambiare il corso della storia (come qualche geniale regista ha recentemente tentato di fare, a mio umile avviso con scarso successo). La fredda macchina calcolatrice che guida le mosse dell’inseguitore, totalmente ossessionato dalla propria preda, è più volte raggirata dal naturale talento dell’inseguito. Dovremmo tifare per Purvin e sperare che Dillinger vada in galera, non ci riusciremo mai. E non per gusto di trasgressione, simpatia per l’illecito che spesso grossolanamente la moda contestatrice ci induce ad assumere, ma per pura empatia con il protagonista. Sul delicato filo della moralità Mann ha sempre fatto l’equilibrista. Il fascino per il malvagio che conosce però gli uomini (ricordiamoci che il primo film su Hannibal Lecter, “Manhunter” 1986, è di Michael Mann) è spesso contrapposto alla piattezza esistenziale dell’immacolato che dall’alto della sua giustizia normalizzatrice mette a posto le cose. Certo il tema non è nuovo e chi meglio chi peggio ha già affrontato tali sfide, ma in questo caso colpisce la delicatezza di alcuni particolari. Nulla è appesantito, non c’è retorica, non c’è autocelebrazione e nemmeno eccesso di sentimento. Dillinger è Dillinger, non la sua rosea copia. È un duro, tira pugni, spara, rapina banche, uccide. Di certo merita l’ergastolo, se non di peggio. Può un uomo così amare? Ne è capace? Sembrerebbe di no. Eppure quando si innamora non perde la minima credibilità. Se fosse il perfetto agente Purvin ad innamorarsi allora sì che risulterebbe grottesco, uscirebbe dal suo ruolo. Come mai? Forse perché non giudicare non significa assolvere, ma conoscere. E giudicare non vuol dire condannare, ma comprendere. John Dillinger non è da considerarsi meno criminale perché ama, ma semplicemente più umano. Sicuramente più umano di chi dedica la propria esistenza all’adorazione di una giustizia astratta.