È stato presentato in anteprima alla stampa italiana Triage, il nuovo film di Danis Tanovic (Oscar nel 2002) con Collin Farrel, Jamie Sivies, Branko Djuric Christopher Lee e Paz Vega.. Ilsussidiario.net è andato a vedere cosa nasconde di speciale questo film che racconta la guerra da domani nelle sale cinematografiche.
Danis Tanovic è un regista che la guerra l’ha vista da vicino, anzi, l’ha vissuta. Quella della Bosnia, per essere precisi, nel non troppo lontano 1992. Con Sarajevo assediata abbandonò gli studi e partì al seguito di una troupe e dell’esercito bosniaco, diventandone il responsabile degli archivi filmati per due anni, fino al 1994. Sarà per questo, per il fatto che lui della guerra ha sentito l’odore, che è riuscito a raccontarne la tragicomica realtà in una pellicola, la sua prima come lungometraggio, che gli ha fatto vincere l’Oscar nel 2002, No man’s land.
Triage, basato sull’omonimo romanzo dell’ex corrispondente Scott Anderson, è un’altra storia. Sempre di sangue si tratta, di offensive, di mine, di innocenti, ma qui non si ride, neppure amaramente. Film di genere – quello bellico contaminato con il thriller – rappresenta la guerra attraverso gli occhi di una figura particolare, quella del fotoreporter, anzi, di due, di Mark (Collin Farrel) e David (Jamie Sives), partiti da Dublino per il Kurdistan nel 1988, epoca della fine del Primo conflitto del Golfo che vide impegnati Iraq e Iran (1980-1988).
Nella storia del cinema sono pochi i film dedicati a questa particolare tipologia di personaggio. Si pensi a We Were Soldiers (Randall Wallace, 2002), Under fire (Roger Spottiswoode, 1983), Urla del silenzio (Roland Joffè, 1984), Benvenuti a Sarajevo (Michael Winterbottom, 1997), Live from Baghdad (Mick Jackson, 2002).
Questa scelta da una parte inserisce la pellicola in un sottogenere. Dall’altra consente a Tanovic, regista nonché sceneggiatore, di raccontare l’evento bellico secondo un’ottica del tutto particolare e generatrice di innumerevoli spunti di riflessione: l’ottica di chi la guerra non la combatte né la subisce, bensì la osserva e la descrive. Tanovic filtra l’evento attraverso la macchina fotografica di Mark e David, optando per una rappresentazione violenta delle circostanze.
Il suo film, destinato a non spopolare come, invece, accadde per Salvate il soldato Ryan (Spielberg, 1998), ha con esso almeno un punto in comune: la crudezza delle immagini. Le primissime sequenze della pellicola di Spielberg sono una doccia fredda che catapulta lo spettatore in medias res dello sbarco in Normandia nel Secondo Conflitto Mondiale. Spielberg fece una scelta di veridicità, ispirando letteralmente questa sequenza alle istantanee che il celebre fotografo Robert Capa scattò al momento dello sbarco.
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Nel caso di Triage la brutalità delle immagini sembra un po’ gratuita. Con un ritmo piuttosto serrato nella prima parte del film, esse bucano lo schermo. Dettagli eccessivi su ferite mortali possono disturbare e non si capisce perché quando un regista decide di raccontare la guerra debba spesso indugiare sui particolari più macabri. Si crede, forse, che solo in questo modo si possa descrivere l’orrore del conflitto? La visione del sangue può creare consapevolezza delle sue cause? Può muovere le coscienze? La guerra è tanto altro.
Ci sono film che raccontano le atrocità di un conflitto senza sbattere in primo piano ferite insanguinate. Eppure sono ugualmente efficaci e in grado di commuovere. Questo, a onor del vero, sembra volerlo dire anche Triage, che sembra riscattarsi nella sua seconda parte, quando il viaggio in Kurdistan si conclude e il ritmo rallenta. La riflessione, infatti, si sposta dall’azione alle conseguenze della guerra.
Attorno al personaggio di Mark, coinvolto nel mistero legato all’amico David, si sviluppano innumerevoli tematiche molto interessanti, che liberano il personaggio dalla difficoltà a empatizzare che si ha con lui. Si fatica, infatti, a entrare in sintonia con Mark poiché risulta drammaturgicamente debole e non in grado di accattivare il pubblico. Solo superficialmente si coglie la motivazione che lo spinge non tanto a partire per il Kurdistan, quanto ad indugiare in quelle zone di guerra, spingendosi oltre il confine del pericolo e coinvolgendo in quest’impresa anche il suo compagno David. Solo verso la fine del film se ne colgono le motivazioni, ma nel frattempo è passata più di un’ora.
Perché partire? Perché andare migliaia di chilometri lontani da casa per raccontare una guerra non tua? Per ambizione? Per sete di verità? Per restituire alla Storia istantanee che le appartengono? Per documentare la bellezza della vita anche laddove c’è solo il colore della morte? Mark sembra farlo per ambizione, per essere dentro la notizia, per fare la Fotografia del Conflitto, quella che in una sola immagine ne racconta la storia nelle sue tappe fondamentali. Forse lo fa anche per soldi, perché in fondo anche questo è un lavoro.
David, invece, sembra partire più per amicizia che per vocazione al dolore degli altri, con lo sguardo delicato di chi è umanamente fragile di fronte a una ferita insanguinata. Perché non puoi andare a fotografare una guerra se non indossi un velo di cinismo. Devi essere pronto a guardare e a odorare, poi sta a te decidere se lasciare quell’immagine fuoricampo oppure zoomare su di essa. Decidere se “salvare la tua anima” o condannarla all’orrore.
Perché è questo quello che fotografano nell’ospedale sito nelle caverne di Harir, dove l’unico medico presente, il dottor Talzani (Branko Djuric), autoriconosciutosi potere di vita o morte, assurgendo quasi a creatura divina decide la sorte dei feriti con un solo cartellino: giallo e sei vivo, blu e sei morto. L’atroce realtà è che in una caverna trasformata in pronto soccorso – il Triage appunto, da cui il titolo del film – in cui c’è solo un medico disponibile, l’unica legge applicabile sui malati è quella della gravità delle ferite. Se sei fortunato, te la puoi cavare. Una caverna, sangue e dolore, quasi la pancia di una mamma, lì dove tutto inizia e tutto può finire, lì dove puoi trovare la vita o riscoprire la morte.
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C’è poi il senso di colpa. Il rientro a casa di Mark non è un ritorno alla pace. Esso vive un conflitto, quello con se stesso, con i fantasmi che la guerra alimenta. Perché lui è un sopravvissuto e, come gli dice il Dottor Morales (Christopher Lee), “è molto complicato essere un sopravvissuto. Per andare avanti devi seppellire i morti”. Il che non significa solo materialmente riconoscere loro degne esequie, ma soprattutto trovare una chiave di redenzione, di purificazione. Tanovic ne esprime il concetto, forse esagerando, attraverso diverse immagini simboliche.
Solo per citarne alcune, i due fotogrammi in cui Mark assume la posizione di Gesù in croce. Che Tanovic voglia dirci che Mark si sta sacrificando per raccontarci la guerra? O forse vuole suggerirci che in fondo lui è davvero colpevole e che per salvarsi ha bisogno di purificarsi? Di qui il rapporto del fotografo con l’acqua, che fisicamente lo salva dalla morte e ne ripulisce le ferite.
C’è un altro personaggio, infine, che si inserisce sulla scia della salvezza: è la moglie di David, Diane (Kelly Reilly), madre non solo perché ha appena partorito, ma soprattutto perché, porgendo nelle braccia di Mark la bimba appena nata, con questo gesto gli offre l’occasione di “salvarsi” dalla sua colpa, di rinascere.
Il regista osa, addirittura, nel proporre una provocazione: anche i peggiori criminali di guerra hanno diritto all’assoluzione. Il che equivale a porre allo spettatore una domanda: quanto sei disposto a perdonare?
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Trailer fornito da Filmtrailer.com