MOON – La Luna è in primo piano mentre la Terra sta sullo sfondo, perduta nell’oscurità dell’Universo. Questo è il punto di vista di Sam Bell, unico dipendente a operare sul suolo lunare per conto della Lunar, azienda che promuove lestrazione di alcuni minerali del satellite, quegli stessi minerali che hanno salvato il nostro pianeta dalla crisi energetica.
Sam lavora da tre anni al progetto e finalmente mancano pochi giorni al suo ritorno a casa: improvvisamente però, un incidente gli fa perdere i sensi per qualche giorno. Risvegliatosi in infermeria sotto le cure del robot tuttofare Gerty, Sam vuole conoscere le cause dell’incidente, ma il robot si mostra restio nel rispondere. Dubbioso e insospettito dal comportamento di Gerty, Sam torna sul luogo dell’incidente e scopre nell’abitacolo del veicolo un altro Sam Bell. Cosa si nasconde dietro tutto questo?
Moon, l’esordio alla regia di Duncan Jones (è il nome d’arte: quello reale è Zowie Bowie, che mette in luce la parentela con il Duca Bianco), stupisce per l’alta qualità registica e per la buona scrittura. Lo stupore è amplificato se consideriamo il genere in cui il film si inserisce, ovvero quella fantascienza che, da qualche tempo a questa parte, sembra assoggettata alla dittatura degli effetti speciali piuttosto che a storie ben scritte.
Non è un caso che la pellicola di Jones si rifaccia apertamente a tre capolavori della fantascienza degli anni Settanta: il kubrickiano 2001: odissea nello spazio, l’esordio di John Carpenter Dark star e il sottovalutato 2002: la seconda odissea. Da ognuno di questi film Jones ruba e rielabora elementi, evitando la citazione diretta ma rendendo visibili queste influenze.
Se l’atmosfera del film richiama alla memoria la silent running del titolo originale di 2002: la seconda odissea, sembra essere Dark star ad influenzare il tono ironico della pellicola, gestito comunque in maniera meno grottesca. A 2001: odissea nello spazio, spetta invece un’influenza sonora (a fianco della glaciale colonna sonora di Clint Mansell, troviamo infatti anche brani di Mozart) e un lavoro sull’immagine che cita – al contrario – gli ampi spazi e i movimenti lirici dell’astronave kubrickiana.
Nonostante questo coacervo di citazioni e rimandi, Moon trova però la sua indipendenza grazie ai temi trattati e al buon lavoro di regia. Duncan Jones si dimostra abile nel sostenere la tensione della pellicola, nonostante la sceneggiatura non punti a mantenere il mistero: solo dopo mezzora di film, infatti, pur avendo ben chiaro tutto il quadro della situazione, abbiamo ancora voglia di seguire le vicende di Sam Bell.
la sceneggiatura a spostare l’attenzione dall’intreccio (appositamente non inutilmente cervellotico) alla vicenda umana del protagonista del film, grazie anche all’eccezionale prova attoriale di Sam Rockwell, che ha finalmente la possibilità di dimostrare le sue doti in un ruolo sofferto e drammatico, complicato dal fatto di dover interpretare non un solo Sam Bell, ma ben due, distinti da un aspetto e un carattere completamente diversi (quindi spesso in conflitto tra loro).
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A fargli da spalla in questo one-man show troviamo la voce di Kevin Spacey, che anima il robot Gerty, efficace nel suo risultare al contempo apatica e simpatica (nel senso originario del termine, ovvero di sentire le stesse cose).
Altro aspetto interessante di “Moon” è che evidenzia, per l’ennesima volta, come il cinema di genere (che sia fantascienza, horror o commedia) abbia la capacità di analizzare la contemporaneità. Il clone Sam Bell (la cui vita dura tre anni, come la durata della sua missione) vive in un mondo in cui il presente è l’unica cosa certa, mentre il passato è ricostruito artificialmente e il futuro non è altro che un desiderio mai esaudito.
Se il continuo susseguirsi di cloni rappresenta la continuità dello scambio generazionale, “Moon” quindi, si rivela un’interessante riflessione sull’identità dell’uomo contemporaneo, la cui vita è intrappolata dal lavoro (il presente) e il cui futuro sembra così lontano da non esistere. Gli rimane come unica consolazione un passato fatto di un ricordo cerebrale, quindi idealizzato, ricostruito e non vissuto.
Costato appena 5 milioni di dollari, “Moon” è l’ennesimo esempio di come la distribuzione italiana sia poco coraggiosa nel portare nelle sale un film atipico. Non noioso, non fintamente autoriale né poco commerciale: solamente diverso e originale nel panorama del cinema fantascientifico. Forse volevano il divo di turno, forse volevano la spettacolarità degli effetti speciali, fatto sta che ci rammarica il fatto che a un film meritevole come “Moon” siano toccate solamente sette sale in tutta la penisola.
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Trailer fornito da Filmtrailer.com