Gaber riletto da Luca Barbareschi. Anzi: Gaber disseppelito da Barbareschi, stanato dalle tarme e dall’oblio, e se è possibile reso contemporaneo. Il caso di Alessandro e di Maria è il racconto di una singolare storia d’amore apparentemente fallita, , assaggiato da Gaber con Mariangela Melato nell’82 e subito archiviato: chissà perché.



A cominciare è un sassofono, quello di Marco Zurzolo: e Barbareschi – che nella sua multiformità punta stavolta anche sulle sue apprezzabili doti di musicista – entra in scena cantando al pianoforte. Ma anche Chiara Noschese, forgiata da buone esperienze nel musical, si difende: recita e canta con l’attore regista e con la band di Zurzolo (nascosta dietro un tulle come faceva Gaber) piuttosto bene.



I due, con coraggio, si infilano nei panni di un testo forse non del tutto risolto ma ancora pungente, un “j’accuse” (gli Anni Settanta erano da poco alle spalle) contro il libertinismo ottuso e la banalizzazione dei sentimenti. Un testo che dopo un quarto di secolo ha ancora il sapore di una caparbia difesa della singolarità dell’uomo e della donna. L’idea nuova è di fluidificarlo con un grappolo di canzoni: famose e no, appropriate e no. Non tutte sono all’altezza, non tutte hanno la forza evocativa di “Vorrei che fosse amore”, la sciolta nonchalance a due voci di “Perché” no di Battisti-Mogol, lo struggimento di “Io che ho amato solo te” o l’interpretazione volutamente dimessa del solo Luca dell’inarrivabile “Almeno tu nell’universo”. Il tentativo però ci sta tutto.



Barbareschi è ironico, pungente, Chiara gli sta dietro con qualche esitazione che è frutto solo del limitato rodaggio (fosse capace Barbareschi, nella sua insaziabile bulimia, di dedicarsi a una cosa alla volta: mentre debutta in teatro sta girando le nuove puntate di “Nebbie e delitti”, contemporaneamente al film di Martone, all’uscita di un altro film e naturalmente agli impegni della politica…).

Eccoli comunque alle prese con questi dialoghi di Gaber e Luporini sulle troppe crudeltà trascorse, scambiate per verità, di una coppia che fu. Dentro, nel profondo dell’io, c’è il passato di ognuno di loro. Lo capisci dal vibrante monologo sull’infanzia di Luca, che da consumato frequentatore dell’Actor’s Studio non riesci a stanare sulla sua vera o indotta commozione (certe correzioni del testo tipo “mia madre era ebrea” però sono pura verità). Monologo invettiva contro le false affettuosità dell’infanzia, ha almeno un battuta che lo vale tutto intero: “Una civiltà che dice a un bambino: c’è rimasto male, poverino dovrebbe essere rasa la suolo”. Così come nel bel monologo sull’inafferrabiltà del mistero femminile, che l’uomo cerca sempre di possedere, riemerge la meravigliosa attenzione di Gaber per quell’universo.

Simpaticamente irriducibile e anticonformista, fra le righe, l’ennesima invettiva contro la campagna, la natura e le sue mille trappole. Potente, preparazione di qualcos’altro che presto arriverà negli spettacoli di quello stesso decennio, il vibrante monologo sul padre in punto di morte: “Stava per dirmi una verità. Non la sua. Quella vera. A che serve morire senza dire agli altri come sono le cose?”. E resta sul taccuino quest’altra lapidaria definizione che riassume tutto lo spettacolo: “Un amore smisurato e sciupato”. Sarà un testo irrisolto (nel finale), preparatorio, non del tutto maturato, questo “Il caso di Alessandro e di Maria”. Ma possiede una sete di autenticità, un’intelligenza e una forza di intenzione che di questi tempi ha del miracoloso (Einaudi l’ha pubblicato nel 2004 insieme ad altri in “Questi assurdi spostamenti del cuore”).

Al Manzoni di Milano, col suo cartellone così svagato e leggero, fa ancora più effetto.