Gran Torino, l’ultimo successo cinematografico diretto e interpretato da Clint Eastwood appassiona il pubblico e fa ancora discutere anche dopo diverse settimane dalla sua uscita nelle sale cinematografiche italiane.  risponde all”intervento  di un lettore de Ilsussidiario.net che si interroga sulla visione del cattolicesimo contenuta nel film,  a suo parere attraversata  dal Protestantesimo.



Voler sezionare un film, analizzando scene e dialoghi, è un comune esercizio critico che spesso però porta a esaltarne i particolari (positivi o negativi che siano), snaturandone la visione d’insieme, quel tutt’uno che rende un film (un libro, un quadro, una sinfonia) un’espressione artistica che trascende sovente anche le intenzioni del suo creatore, e facendola diventare un’opera veramente universale.



Anche senza prendere in esame gli eccezionali aspetti tecnici e narrativi, quello che colpisce di Gran Torino è che mostra la conversione (tutt’altro che apparente!) di un uomo. Un uomo che ha fatto errori, che ha commesso delitti, ma che in un punto particolarmente doloroso della sua vita incontra dei volti che lo portano, quasi inconsapevolmente, a cambiare il corso della sua esistenza; fino ad andare incontro, questa volta consapevolmente, al sacrificio. E il cuore di tutta questa vicenda (che, come la vita, a volte è comica, a volte è violenta, a volte è tragica) è in un finale che è un lampante riferimento a Cristo. Cosa che colpisce il pubblico fino ad ammutolirlo e che ne ha decretato un successo enorme, anche se per certi versi (proprio la particolarità dell’argomento) inaspettato.



Mettersi a cercare l’influenza luterana, soppesare il ruolo del clero, definire il film “cattolicesimo all’americana”, mi sembrano speculazioni che tendono a ridurre il film entro forzosi schemi catechistico-didattici. Liberissimi di farlo, ma non penso sia il livello di approfondimento adeguato alla ricchezza che un film come Gran Torino è in grado di offrire.

Leggendo le recensioni fatte da molta stampa cattolica sull’ultimo lavoro di Clint Eastwood, tra le quali quella fatta del bravissimo Simone Fortunato sul Tracce di marzo, mi è sembrato che non sia stato messo sufficientemente in rilievo un errore di prospettiva abbastanza grave, a mio avviso dovuto a una influenza della “cultura” luterana, che il regista americano proietta sul cattolicesimo influenzando l’intera prospettiva del film ed in particolare il finale.

Ciò che mi lascia più perplesso è innanzitutto il rapporto tra il burbero protagonista e il giovane padre Janovich, non c’è nulla o quasi che il sacerdote riesce a fare per incidere veramente nell’animo di Walt, lo invita pressantemente a confessarsi, gliene spiega anche confusamente il valore ma evidentemente non riesce a farglielo comprendere fino infondo, come il finale tristemente dimostra. Il prelato tenta più volte di spiegare all’anziano protagonista le ragioni per le quali nella propria esistenza, piena di esperienze forti, sembrava avere appreso più cose riguardo alla morte che non alla vita, ma al termine del film il giovane pastore concede l’onore delle armi davanti al feretro dell’anziano che solo apparentemente è cambiato. Il sacerdote, nel proprio rapporto con Mr. Kovalski, tralascia di parlare di ciò che è essenziale, di Cristo, la Confessione viene vista come una forma rituale di psicanalisi, parlare dei propri peccati per rimuoverne il peso non si sa bene per quale motivo, ed è proprio questo fraintendimento che genera il triste epilogo, che a mio avviso non lascia poi un così ampio spazio alla speranza; non è un caso che la conclusione del film sembra essere un trionfo del luteranesimo: non c’è possibilità di salvezza in questo mondo e lo sa bene l’anziano Walt, che confessa solo i propri peccati marginali, solo con la morte si può rimediare al peccato di cui riesce a parlare solo con Thao e che non gli ha consentito di vivere tutta la propria esistenza. Lascia un po’ di amaro in bocca anche il presunto lieto fine della lettura del testamento con cui Walt disereda i propri figli, se infatti è vero che l’anziano protagonista tenta, una volta scoperto di essere condannato dalla propria malattia, di riallacciare una sorta di rapporto con quei figli dai quali egli non è mai stato capace di farsi conoscere e che sono stati irrimediabilmente segnati dall’essere cresciuti con un padre vivo solo apparentemente, tale tentativo sembra dettato più che altro dalla volontà di mettersi a posto con la propria coscienza piuttosto che dal reale desiderio di ricostruire quella famiglia che è stato infondo il suo carattere a rendere così mostruosa agli occhi del pubblico; anche dopo il nobile gesto di dare la propria vita gratuitamente per qualcun altro, egli non riesce ad essere di esempio per i propri figli che anzi decide di lasciare soli in balia di se stessi come, del resto, aveva sempre fatto fino ad allora.

Mi chiedo dunque cosa abbia potuto imparare di così importante il giovane Padre Janovich da quell’uomo, forse la speranza cristiana non riempie molto di più di contenuto una parola, che nel corso del film sembra quasi essere messa alla berlina, presentata con l’altisonante ma apparentemente vuoto termine di “salvazione”?

(Antonio Zuccaro)


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